(a cura di Anna Prandoni)
“Pensi che fortuna: ciò che fa bene a noi, fa bene anche al pianeta, quello che ci fa male, è dannoso anche per la Terra. È così semplice… si vince sempre.”
Ero venuta al Plaza Athénée di Parigi convinta di incontrare uno chef ansioso di raccontarmi delle sue nuove aperture – Monsieur Ducasse è appena tornato da Londra dove ha inaugurato la sua nuova boutique Manufacture du Chocolat, poche settimane fa ha dato avvio al ristorante sull’acqua che attraversa la Senna, Ducasse su Seine, la sua trattoria italiana nel cuore della Ville lumière ha appena qualche mese. Eppure per un’ora e mezza abbiamo parlato quasi esclusivamente di sostenibilità, di benessere, di gastronomia umanista.
Perché dietro questo colosso della ristorazione internazionale, alle spalle di questo signore che ha costruito un impero da 21 stelle e 20 ristoranti, oltre questo autentico mito vivente (e non esagero usando questo epiteto) che ho di fronte c’è un pannello con disegnata della verdura fresca e rigogliosa. Il suo manifesto.
“No, non sono sempre stato così: questa consapevolezza mi viene dall’esperienza. Come viene dal percorso che ho compiuto il mio desiderio di togliere. Lo dico sempre ai miei ragazzi in cucina: dovete togliere, non aggiungere, togliere è la strada. Ed è la stessa cosa che devono capire tutti: siamo in un momento storico nel quale chi può mangiare mangia troppo e chi non può mangiare non mangia nulla. Basta una diversa consapevolezza per riequilibrare il pianeta ed essere tutti più sani.”
L’attenzione alla sostenibilità è stata sancita dalle pagine di ‘Mangiare è un atto civico’ scritto con Christian Regouby. Un autentico pamphlet che certifica il Ducasse-pensiero: meno cibo, meno sale, meno zucchero, meno grassi, più consapevolezza per la salute e soprattutto per il pianeta.
A volte nel nostro lavoro sarebbe più facile non fare domande scomode, soprattutto davanti ai grandi miti, ma da quando ho finito il suo libro una mi martella in testa, e non posso non farla. Come si concilia il lusso con la sostenibilità?
“Intanto, se io non fossi Alain Ducasse, lei non sarebbe qui e io non potrei parlarne. Il lusso serve per creare attenzione, ma è la parte superiore e visibile dell’iceberg. Tutto il resto è la parte inferiore: quella che non si vede e che invece è importante. Il lusso è lo strumento che mi permette di parlare a tutti. E comunque può essere sostenibile anche quello.”
Una vera battaglia politica, che lo chef porta avanti con una determinazione e un afflato che vanno al di là della cucina. Quando gli chiedo se è un affare politico non mi lascia nemmeno finire la domanda: “Il cibo lo è. Dobbiamo smettere di mettere nelle mani di imprese agroalimentari votate solo al profitto la nostra salute. Dobbiamo ricominciare a conoscere quello che mangiamo, a scegliere. Ormai è davvero solo una questione di scelta: in un mondo in cui impera google, non voler sapere le cose è solo indice di pigrizia. Informarsi e conoscere è il solo modo per salvarci.”
Ma come lo spiegheremo, come lo faremo capire a quei tanti che mangiano per schemi e per ingordigia? “Piano piano, con costanza. Ma ce la faremo. Non è una questione economica: anche mangiando ceci o cipolle, buoni e coltivati con intelligenza, pagati il giusto e acquistati da fornitori per bene e che conosciamo si può stare bene. Invece di mangiare tre volte a settimana un pollo cattivo ne mangeremo uno buono e sano una volta sola. Farà bene a noi e al pianeta. Non è incredibile?”
Sto per chiedergli se c’è un limite, per un cuoco, ma mi anticipa: gli ho raccontato di aver visitato uno chef emergente proprio la sera prima, e ho sentito parlare di lui. “Ci sono stato. Il suo limite è di essere troppo bravo. È geniale, ma potrebbe essere il suo limite. Perché complica, invece di semplificare. E le persone non hanno bisogno di cucina complessa, cerebrale, ma di cucina buona. Se c’è un limite, per un cuoco, è questo.”
Traffica con il cellulare e intuisco che è da un’altra parte. Legge e sorride, legge ed è quasi commosso: “Mi scusi. Incontrerò il Papa’. Non colgo subito, allora lo ripete: “Incontrerò il Papa.” Lo dice con una punta di orgoglio, per una volta – una delle poche nella sua vita, mi immagino – sarà lui dall’altra parte, sarà lui in soggezione.
Perché è indubbio che stare qui, accanto a lui nella sala da pranzo all’interno della sua cucina in uno degli hotel più belli e raffinati di Parigi, mette quel po’ di timore reverenziale che ti fanno parlare piano, ti fanno misurare le parole. Ti fanno sperare di non fare la domanda sbagliata al momento sbagliato.
Ma bastano un po’ di coraggio, e il suo sorriso sornione, per scoprire che adora il panettone. Ovviamente, il suo. “Sa qual è il panettone migliore al mondo? Lo fa il mio chef del Louis XV a Monaco. Ha imparato da Massari. È con il mio cioccolato (Quello della Manufacture parigina) e con scorze di agrumi…” Mi permetto di dissentire: “Non è quello tradizionale.”
“No. Il mio è più buono.”
Sorrido e insisto: “Lei è davvero molto francese, Monsieur”. “Sa perché posso permettermi di essere così sicuro di me, così spocchioso? Perché i miei antenati hanno costruito Versailles. E se io discendo da persone che hanno costruito Versailles, posso fare tutto quello che voglio. È genetica.”
Possiamo dichiarare chiuso per sempre l’argomento? Non ho avuto il coraggio di proseguire.
Mentre sto uscendo penso a quanta fatica deve fare per tenere insieme tutto. Non posso esimermi di chiedergli come fa: “Ho degli eccellenti collaboratori. Ci sono molte persone con me da 25, 30 anni. Solo grazie a loro posso fare tutto quello che faccio”. Ma non è stanco? “Stanco? Ma faccio il lavoro più bello del mondo, incontro persone interessanti ovunque, ho sempre bellezza intorno. Durante ogni viaggio che compio incontro almeno una persona che mi dice una cosa interessante, che mi svela un prodotto o mi fa conoscere a sua volta qualcuno: basta essere curiosi, e il mondo si apre.”
Quando ci siamo incontrati l’ultima volta, diversi anni fa, gli avevo chiesto se era felice. Mi aveva guardata male e aveva risposto “Che cosa c’entra la felicità? Lavoriamo per la perfezione”.
Prima di lasciarlo provo a chiederglielo di nuovo. “È felice, Monsieur?”
“Sì, Sono felice.”
In questi ultimi anni qualcosa è sicuramente cambiato.
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