Ovvero come sopravvivere e dare senso a un periodo faticoso anche nel mondo della ristorazione. Dalla rubrica L'ALFABETO DI ELLEGÌ.
Il Covid prima e la guerra in Ucraina poi hanno innescato dinamiche complesse, a tendenza fortemente negativa per quanto riguarda l’intero comparto alimentare. Una situazione tanto critica da far dire al governatore della Banca d’Inghilterra Andrew Bailey che i rialzi dei prezzi del cibo saranno “apocalittici”, a partire da materie prime e semilavorati.
Alla guerra del pane, figlia del conflitto tra i due granai d’Europa – Russia e Ucraina – si è aggiunta quella dei pesci, per colpa del gasolio che costa così caro da togliere ai piccoli pescatori la voglia di uscire in mare. E in scia, sono diventati a rischio tutti i prodotti che hanno a che vedere con il picco di costi dell’energia.
Impensabile limitarsi a scaricare gli aumenti sull’attore successivo della filiera, come in un domino maligno. Anche perché il fruitore finale rischia di essere un anello così debole da restituire gli aumenti al mittente, evitando, per esempio, di comprare certi prodotti o di mangiare al ristorante.
Il food cost è una voce importante ma non decisiva, a fronte – per esempio – del costo del lavoro. Ma per mantenere intatta la qualità della proposta gastronomica si rischia di dover comunque mettere mano ai prezzi dei menu, variabile ad alto rischio di impopolarità.
Per questo, la ristorazione è obbligata a cambiare. Così, il successo dei grandi selezionatori-distributori di eccellenze sembra destinato a un ridimensionamento. C’è stato un tempo, anche abbastanza lungo, in cui dalla sella d’agnello presalé agli oli aromatizzati, tutto o quasi il meglio veniva acquistato in modalità pret-à-porter. Questione di comodità: acquisti su misura, più facile gestione del magazzino-frigo, riduzione delle lavorazioni (spazio e tempo).
Ma la crisi obbliga a fare scelte diverse. La scia luminosa della nuova cucina vegetale, la necessità di sostenere i piccoli produttori locali, la maggiore consapevolezza del pubblico in termini di ecocompatibilità stanno cambiando i paradigmi dell’offerta gastronomica.
Gli orti-bomboniere esibiti come gioielli per affascinare i clienti hanno lasciato posto agli orti veri, fatti di tanti filari meno charmant ma più generosi di pomodori e zucchine. Gli artigiani del cibo lavorano in sinergia sempre più stretta con i cuochi, quasi in modo sartoriale. L’identità territoriale ha smesso di essere un limite, perché abbiamo capito che la cucina internazionale e i vini barricati possono essere buonissimi, ma sono irrimediabilmente standardizzati.
Ingredienti poveri ma belli, lavorati in prima persona, attivando la microeconomia locale, meglio se in modalità biocompatibile. Compatibile con la vita, appunto. Quella della ristorazione, di Madre Terra e di tutti noi.
In apertura: foto Adobe Stock
a cura di Licia Granello
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