a cura di Roberto Magro
La ristorazione a Milano si sviluppa in diverse direzioni: oltre ai generi sempre più differenziati e specifici (ristoranti gourmet, pizzerie, hamburgerie, neo trattorie chic) anche nuovi luoghi accolgono ristoranti o vivono una rinascita del settore food. Basti pensare alla ristorazione di hotel, sulla quale sono piovuti consensi e stelle Michelin, o al nuovo proliferare (nuovo almeno per l’Italia) di caffè e bistrot anche all’interno di librerie.
Un altro luogo divenuto attrattivo per la ristorazione sono i musei.
Soprattutto musei d’arte moderna o contemporanea: pensiamo al Museo del 900, la nuovissima Torre Prada, La Triennale, o ancora il Mudec, tutti musei che a Milano hanno saputo attrarre proposte ristorative che vanno al di là della pausa veloce da bar “di primo soccorso” giusto per sconfiggere la fame.
Locali con un’offerta modulabile nei vari momenti della giornata: un caffè o una più sostanziosa colazione al mattino, prima di iniziare la visita alla collezione, una pausa pranzo tra una mostra e l’altra, per un tea time o per l’aperitivo dopo una visita pomeridiana, magari godendo di una bella vista sulla città, visto che spesso la collocazione di questi locali è in cima al museo.
Infine il momento della cena, in un ristorante che sicuramente gode del traino di pubblico del museo, ma che col tempo conquista una propria autonomia e attira pubblico anche esterno. Un cliente che magari andando a cena poi si fa tentare dalla mostra o dalla collezione permanente, passandoci accanto, e decide di visitarla in un momento successivo, circoli virtuosi tra cibo e arte.
È il caso ad esempio di Osteria con vista alla Triennale, che domina sulla città con un panorama che costituisce già di per sè un valore aggiunto.
Qui Stefano Cerveni, chef con una stella Michelin al Due Colombe di Borgonato di Corte Franca (BS), tre anni fa ha portato la propria idea di cucina, adattandola alla realtà di questo luogo, trovando in Matteo Ferrario, trentenne resident chef, un valido supporto alla guida della brigata.
Se si arriva prima del tramonto, d’estate nel dehors, d’inverno protetti dal freddo grazie alla struttura trasparente di vetro e acciaio che delimita la sala, lo spettacolo non lascia indifferenti: lo sguardo spazia dalle sculture della rinata fontana di De Chirico, attraversa il polmone verde di Milano, il Parco Sempione, per raggiungere il profilo delle nuove vette dei grattacieli di Porta Nuova.
Un locale che funziona al ritmo battente di 60 coperti in inverno, che diventano quasi il doppio d’estate.
Menu differenziati tra pranzo e cena e un’idea di cucina che Cerveni, sorriso pronto, decisa stretta di mano e pragmatismo nordico, ci racconta con poche ma efficaci parole. Tradizione, stagione e ricerca della qualità senza troppe linee filosofiche astratte.
L’obiettivo finale è sempre la soddisfazione del cliente, senza rifiutare qualche contaminazione ma al tempo stesso nessuna forma di snobismo verso i classici di sempre.
Una brigata che segue la spontaneità ai fornelli, continua Cerveni, senza avere il dogma di dover osare solo per il gusto di farlo.
La cartina di tornasole per giudicare un piatto è una sola: piace al cliente? Un’idea di cucina che non può essere quella di un ristorante Michelin, per un locale che da pieno è energia pura, felicemente brulicante su una città frenetica come Milano.
La cucina è a vista e senza barriere con i tavoli, le luci di scorcio del pass illuminano la brigata come sotto riflettori, va in scena la cena. Vincoli architettonici e necessità di ottimizzare gli spazi a disposizione hanno imposto preparazioni separate: secondi caldi e antipasti vengono cucinati al piano di sotto, i primi invece nella parte della cucina in sala, di fronte ai tavoli.
Al piacere dello sguardo vengono riservati risotti all’onda, mantecature a vista e paste saltate e insaporite davanti ai clienti.
Il menu invernale riserva sorprese cariche di gusto come il foie gras con la quaglia croccante.
L’ astice al vapore con pomodorini in due colori con riso soffiato e germogli di rafano subisce una bella sferzata di sapore con il pomodoro bruciato, posizionato sotto l’astice e in forma di salsa, quasi l’effetto di quei ragù partenopei dalle cotture lunghissime.
Il Carnaroli Riserva San Massimo per il risotto cavolo nero, pecorino romano e zeste di limone, si rivela un azzeccatissimo come cottura e corretta l’onda.
Citazione del Due Colombe e della storia personale di Cerveni è il manzo all’olio. Una lunga cottura del cappello del prete, per una ricetta storica nell’interpretazione della nonna Elvira. Qui l’olio viene aggiunto solo alla fine e copre a metà la carne: quella che una volta era una soluzione per risparmiare olio, oggi è per alleggerire. A fianco la polenta e un’essenziale patata bollita, con la salsa “che scappa” puntando al sapore più che a un’estetica a volte fine a se stessa.
Un piatto che è un classico, saldo nel tempo, quello proposto da Cerveni, ripensato senza stravolgerlo. Quasi emblema della filosofia di uno chef che, pur consapevole dei risultati ottenuti, è ancora in grado di mettersi in discussione “mi chiedo ancora se quello che sto facendo è giusto non mi sento ‘imparato’ nemmeno adesso” e ogni traguardo diventa punto di partenza.
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