In un'intervista a Corrado Scaglione, pizzaiolo pluripremiato, molti consigli e racconti curiosi che stanno alla base del grande mestiere del pizzaiolo. Ecco come fare il pizzaiolo secondo Scaglione
Fare il Pizzaiolo? Storia, tradizione e consigli. Ecco l’interviste esclusiva con Corrado Scaglione, pizzaiolo per grande passione che ha dato nuova linfa al locale di famiglia, trasformandolo in una pizzeria blasonata e premiata
Gli ingredienti per fare una buona pizza sono pochi e semplici: la farina, l’acqua, il lievito, il sale, e poi la mozzarella, il pomodoro, l’olio… e l’arte. Quella del pizzaiolo. Di chi, come Corrado Scaglione, sa trasformare materie prime solo apparentemente comuni in qualcosa di eccezionale. Pizzaiolo lo è diventato per passione, donando una nuova vita a quella che era l’osteria di famiglia. E dal 2002 nella sua Enosteria Lipen a Canonica (MB) ha collezionato premi, riconoscimenti e apprezzamenti.
Perché ha scelto di diventare pizzaiolo?
«Per amore: amore della vera pizza napoletana. Quella rotonda, classica, soffice e mai gommosa, che va seguita e curata in continuazioni, calcolando le variabili de tempo atmosferico e del tipo di farina utilizzata. L’amore era già nato per la cucina, guardando al lavoro di mia madre, e la scelta di fare l’Alberghiero è stata conseguenza di questa passione. Poi ho lavorato come cuoco, ho girato, anche in cucine importanti, come quella dell’Enoteca Pinchiorri, ma alla fine sono tornato a casa».
È un lavoro che richiede grande impegno…
«Sì, ma a me piace studiare, non fare le cose a caso… in questo senso la professione può solo migliorare: le conoscenze stanno aumentando, sono tanti quelli che approfondiscono il loro lavoro e ottengono risultati straordinari. Dall’altro lato la gente se ne rende conto, apprezza le qualità, premiando in crescita chi lavora in questo modo ».
Pizze romane, pizze napoletane, pizze gourmet e pizze vegane. Qual è la vera pizza?
«Noi aderiamo all’Associazione Verace Pizza Napoletana, che impone una totale artigianalità. Siamo autorizzati a usare solo un’impastatrice per aiutarci nella lavorazione, altrimenti quasi impossibile. L’impasto è fondamentale, perché la pasta non è solo il “piatto” della pizza: se non è buona, non importa se ci metti sopra gli ingredienti migliori, il risultato non sarà comunque soddisfacente.
E poi c’è la Romana…
«Un po’, per sfida personale, un po’ per aumentare i servizi nel locale, ho inserito in menu la pala romana. In passato era il panino del muratore romano, sorella della teglia ma cotta direttamente sul refrattario; oggi è la base di tutte le pizze gourmet.
Alta e leggera, con una doppia lievitazione di 24-26 ore totali (impasto indiretto), croccante fuori e soffice dentro, è oggi una importante alternativa per la nostra clientela. Viene servita con sei ricette del territorio italiano, ma con un po’ di inventiva del mio chef e con gli impasti curati personalmente. Questa pizza è spesso aperitivo per chi viene a mangiare la napoletana, ma la si gusta anche da sola, magari con un calice di champagne».
Tradizione e aggiornamento vanno tenute in equilibrio. Come?
«Io ho uno staff giovanissimo: amo i giovani, danno continuità a quello che faccio. E insieme ci teniamo aggiornati, seguiamo corsi. E intanto creiamo un gruppo. Fondamentale è anche il confrontarsi, il parlare e l’assaggiare. Così come dialogare con i produttori: prediligo i presidi Slow Food perché so di lavorare con gente che ha la mia stessa mentalità. Molte materie prime devo farle arrivare: la mozzarella di bufala sempre fresca, i pomodori del piennolo.
Prodotti che a Napoli sembrano scontati, così come per chi a Napoli ci è nato sono scontati quella manualità, quella gestualità proprie dei colleghi nati “sotto il forno”, che hanno nel DNA una capacità di trattare la pizza incredibile».
Qualche consiglio per i ragazzi che vogliono fare il pizzaiolo?
«Purtroppo ce ne sono pochi. Nessuno si iscrive all’Alberghiero per fare il pizzaiolo, vogliono tutti fare lo chef. È un mestiere in cui in genere si arriva per caso, facendolo come secondo lavoro. E poi ci sono i “figli d’arte”. Ai giovani bisognerebbe dare la possibilità di vedere cos’è questo mestiere, un lavoro aperto, che cerca gente che lo sappia fare bene. Ma anche in questo caso ci vuole cultura, passione e consapevolezza. Valorizziamo quello che abbiamo: come su molti altri fronti in Italia, dovremmo avere più consapevolezza e più orgoglio per quanto abbiamo. Chi fa il mio lavoro dovrebbe imparare a comunicare la qualità ».
a cura di Daniela Guaiti e Anna Prandoni
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