Grammatica italiana, tecniche e materie straniere. La storia di tre chef “expat” che arricchiscono, col confronto, la nostra cucina
di Gabriele Zanatta
«In Italia non si è mai mangiato così bene», sentiamo dire puntualmente quando esce una guida ai ristoranti.
È un’affermazione sacrosanta che meriterebbe una coda altrettanto importante: «Pure all’estero non si è mai mangiato italiano
così bene».
Il merito è tutto dei “fornelli in fuga”, cuochi che hanno scelto di mettersi in gioco oltre confine. Expat che non necessariamente vanno via sbattendo la porta a un paese che non offrirebbe più opportunità, secondo una diffusa retorica.
Semplicemente, sono professionisti curiosi che scelgono di aprirsi al mondo per innata curiosità, istinto votato al confronto o anche solo questioni di cuore. Che non temono di combinare la grammatica della nostra cucina con tecniche o materie prime lontane.
Passerini, il cuoco che visse due volte
Il nostro ciclo parte da Parigi. Il romano Giovanni Passerini atterra sugli Champs Élysées nel 2007, poco più che trentenne. Nemmeno tre anni dopo apre la sua bottega e fa subito sensazione.
“Rino” (2010-2014) è un affollatissimo bistrot in cui il nostro cucina prodotti a ruota quotidiana, in spazi che dire angusti è poco. Sono le stagioni della bistronomie, il movimento d’alta cucina a prezzi ragionevoli che infiamma la città. All’apice del successo, chiude in conseguenza di un tarlo che lo divora da un po’: aprire un’osteria di cucina italiana.
Nel maggio 2016 lucida a nuovo una luminosissima insegna al 65 di rue Traversière e il successo gli arride all’istante. “Passerini”, ristorante e pastificio accanto, esprime una splendida offerta democratica, che mette in cima a tutto il cibo e lo stare bene. L’iconica trippa alla romana, pasta e ceci con peperoni cruschi e gamberi rossi da volare via. E i Plats a partager, favolose pietanze da condividere al tavolo, “all’italiana”.
La bistrosteria di Simone Tondo
Sardo di Macomer, 30 anni appena compiuti, anche Simone Tondo ha scelto Parigi una vita e mezzo fa.
A 23 anni è già chef/patron di “Roseval”, insegna nella periferia di Ménilmontant. La sua fama inizia a ingrossare qui, a colpi di cucina istintiva eseguita su prodotti impeccabili e srotolata in spazi molto compressi. Ma l’ambizione pressa e così, nel giugno 2016 apre il ristorante fine dining “Tondo”, in rue de Cotte, sulle ceneri della Gazzetta, altra insegna simbolo della bistronomie.
Qualcosa non va e così, nel gennaio 2018, anche lui decide per una drastica inversione a U di sapore italiano. È “Racines”, l’ultima avventura nello storico Passage des Panoramas: i riferimenti all’osteria italiana – “Ratanà”, “Trippa”, “Osteria del Mirasole” – si sprecano e si fondono alle tecniche del paese adottivo. Scampi con patate e nocciole piemontesi, tagliatelle al ragù di guancia di manzo e capperi di Pantelleria. Una “bistrosteria”, come l’ha già definita la stampa locale, con una coda fuori già lunga così.
Fantin e Fiorani, Big in Japan
Fuori dall’Italia, il primato d’insegne col maggior numero di riconoscimenti spetta al Giappone. Nella sola Tokyo ci sono ben 13 ristoranti di cucina italiana con una stella Michelin. Nascosto in questo mucchio, c’è l’indirizzo fine dining in cui si mangia meglio al mondo: Luca Fantin alla Bulgari Ginza Tower. Trevisano, classe 1976 come Passerini, moglie giapponese, Fantin è reclutato dalla celebre maison nel 2009. Negli anni si dà un gran da fare per assolvere una missione inedita: fare cucina italiana con le meravigliose materie prime giapponesi.
Il risultato è riassunto in splendidi piatti come gli spaghetti di ricci di Hokkaido o il maiale alla griglia con consistenze di sedano rapa. Un percorso squisitissimo che dall’ottobre 2015 si giova dei dolci “onirici” di Fabrizio Fiorani, un pasticciere trentenne di cui sentiremo parlare in abbondanza.
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