Viviamo in un mondo dove molti, grazie ai social, passano per geni scopiazzando impunemente, mentre chi innova per davvero non è quasi mai altrettanto mediatico. Io preferisco il secondo tipo, gente come David Bedu a cui, a distanza di 10 anni da quando abbiamo pubblicato una serie di articoli epici, ho chiesto come sono nati alcuni dei suoi prodotti, che poi sono diventati delle icone
Lavorare con chi anticipa le tendenze non è facile: occorre intuito e reattività, perché i veri anticipatori corrono veloci; occorre anche fiducia, perché non è semplice capire dove vogliono andare a parare. E occorre pazienza perché, se anticipi i tempi, quasi mai verrai compreso. A me è capitato qualche volta di acchiappare un vero innovatore, per esempio David Bedu, ed è stata un’esperienza indimenticabile di cui sono particolarmente orgogliosa. Non è per orgoglio però che lo intervisto a distanza di 10 anni. Lo faccio per trasmettere un messaggio a chi ha voglia di evolvere: la creatività non è l’estro di un momento. Al contrario è il frutto del tempo e del duro lavoro.
Davide Bedu: come è nato il croissant bicolore
Partiamo dal croissant bicolore. Che io sappia, nei loro libri, Guido Devillé, Jimmy Griffin, Thomas Marie Yohan Ferrant hanno avuto l’onestà di riconoscere che l’idea fosse tua, mentre in Italia si tende a dimenticarlo.
Si tratta di colleghi con cui ho uno scambio continuo e che da sempre mi riconoscono il merito di osare e di provare a uscire dal solco di una panificazione “vecchio stile”. Chiariamo una cosa: il croissant bicolore nasce dall’inutizione di unire due tecniche che esistevano già e di proporre qualcosa di diverso e nuovo, quindi tecnicamente è un’invenzione. Non mi aspettavo che avesse questo successo, che è dovuto principalmente alla velocità con cui adesso le informazioni passano sui social. Risale addirittura al 2010 ed è nata dalla mia curiosità: io sono un accumulatore di idee degli artigiani, dai falegnami ai pittori, ai muratori. Sono incuriosito dalla manualità di tutti e da come plasmano le materie prime che utilizzano, in particolare nei mestieri dove si usano i colori. Nel 2010 mi ero iscritto alla selezione dei MOF e stavo cercando un prodotto “signature” da presentare in quella circostanza, che poi non si è mai concretizzata per via di un incidente che ha pregiudicato la mia salute. Occorreva presentare un croissant classico e uno innovativo, appunto, che fosse personale. Giocando con l’impasto del croissant e quello della brioche al cioccolato, mi è venuta l’idea di unirli. Non è stata però un’intuizione fulminea: ho partecipato a manifestazioni, visitato fiere e ho accumulato molte informazioni che mi sono tornate utili per realizzare questo prodotto.
Ecco l’uovo “lievitato” del 2013
Anche il tuo “uovo” è stato poi ripreso da altri, senza che nessuno ti riconoscesse la paternità
Come del resto la tecnica del nastro nel pane artistico, che io ho sviluppato intorno al 1995 (ultimamente ho visto che viene ripresa anche per fare della pasta). Anche questo deriva un po’ dalla mentalità dei “social” dove, per esistere, devi essere o passare per fenomeno. Vogliono tutti credersi dei Leonardo da Vinci, il problema è che di Leonardo ne nasce uno a millennio. Senza scomodare delle menti così eccelse, anche personaggi come Amaury Guichon vengono imitati, ma per fare le sue creazioni lui lavora da anni e le studia per tantissimo tempo. Oggi si tende a pensare che essere geniali sia una cosa semplice e accessibile a tutti, ma non è così.
Qual è il processo creativo che utilizzi per creare qualcosa di nuovo?
La mia creazione parte da una richiesta o da una necessità. Nel caso dei prodotti di cui abbiamo parlato avevo la necessità di creare qualcosa di nuovo per un concorso (il MOF, nel caso del croissant) e per la tua richiesta di creare un prodotto per la Pasqua fuori dal comune che sarebbe stato pubblicato sul Panificatore. Così mi sono messo a lavorare sull’uovo, ma era un’idea che avevo in testa da anni. Solo che non avevo mai avuto la possibilità di concretizzarla: sapevo già che potevo farcela, perché avevo già provato a realizzare delle apple-pie in stampi che si chiudevano in modo simile. Anche qui non si tratta quindi di un colpo di genio: c’erano già degli stampi per il pan carré che si chiudevano come serviva a me, quindi ho preso degli stampi per le uova di cioccolato e ho applicato lo stesso tipo di chiusura provando a cuocerci dentro un pan brioche. Se non avessi avuto questa spinta da parte tua per la rivista, l’uovo di Pasqua sarebbe rimasto nei miei quaderni.t
Ok, ma qual è il metodo con cui un’idea o un processo viene “messo a terra”, concretizzato in un prodotto?
Il sistema esiste già, non l’ho creato io. Si utilizza in architettura, nelle arti visive: oggi non esiste nessun architetto o designer che non disegni qualcosa prima di crearlo. Nel mondo dell’arte bianca non siamo abituati a fare questo, anche se da qualche anno vedo i pasticceri disegnare i loro dolci. Io non sono come Stephane Klein (il mago dello zucchero e del cioccolato che ha ispirato moltissimi pasticceri, ndr) che disegna esattamente quello che andrà a realizzare. Io parto da un’idea e la sviluppo più concretamente, ma il processo mentale è lo stesso: solo che rispetto a chi fa un progetto, molto spesso il risultato finale non è quello che mi prefiguravo perché magari lavorando materialmente cambio un tipo di tecnica o ne provo una nuova. Progettare aiuta invece a essere più rigorosi, ma anche qui mi occorrerebbe un’occasione per racchiudere questo genere di creatività in un lavoro concreto come, per esempio, un libro.
Perché non l’hai mai fatto un libro?
Perché ho deciso di fare l’artigiano ed è un lavoro che porta via tutto il mio tempo e prosciuga le mie energie. Dovrei trovare il modo di ritagliarmi dello spazio, ma attualmente non è possibile. Ho in mente tante idee che non ho ancora visto in giro, soprattutto relative al pane artistico, ma non solo. Il mio lavoro creativo, le idee che ho ancora in testa, le ho sviluppate soprattutto nei 3 anni che sono rimasto alla Gustar (la scuola di arte bianca di Pistoia, proprietà delle DMP), perché avevo il tempo di dedicarmici. Dovrei trovare un mecenate che mi paghi per creare… oppure qualcuno che curi la mia immagine, perché io – a differenza di altri – non sono capace di promuovermi.
Perché non hai più pensato di fare dei corsi?
In effetti di corsi non ne ho fatti molti. Quando hai un’azienda da mandare avanti non è semplice trovare il tempo per organizzare un corso. Anche perché a me non interessa fare corsi dimostrativi per far vedere la mia bravura. A me interesserebbe trasmettere veramente, insegnare tecniche e prodotti che poi le persone possono veramente mettere in pratica e riprodurre nella loro bottega; essere utile al mestiere. E questo è molto più impegnativo di un corso completamente improntato alla creatività.
Di questo sono testimone diretta perché abbiamo prima chiesto il parere e poi, ovviamente citato, chi ti aveva dato l’idea della bolla di pane fatta con il sifone…
Rafael Chaquero, mi ricordo. Io non mi sono mai permesso di rubare l’idea di qualcuno e non ho mai tradito la fiducia di chi mi ha mostrato una tecnica nuova. Anzi, mi sono sempre sentito orgoglioso di fare da ambasciatore di una buona idea.
E, invece, come è nato il cake in vasocottura che poi molti hanno ripreso?
È nato da una visita a un’azienda che si chiama Felchlin in Svizzera: è un’azienda che fa cioccolato. Durante il soggiorno ho visitato una pasticceria che faceva dei prodotti cotti in questi vasi della Weck, che erano anche molto belli. In questa pasticceria ci facevano delle creme: crème caramel, frangipane, ecc. Da lì mi è venuta l’idea di farci un lievitato. Era una tecnica già utilizzata anche in cucina, che ho adattato alle mie esigenze. L’ho solo modificata per metterci dentro un cake con un cremoso come inserto, perché dovevo presentarlo sempre su Il Panificatore. Anche in questo caso, non ho inventato io la tecnica, l’ho semplicemente adattata alla mia esigenza di quel specifico momento, che era proporre un cake in modo insolito ed esteticamente accattivante.
Il pane del futuro: se lo dice David Bedu…
Neanche io, ma facciamo un passo oltre. Come sarà per te il pane del futuro?
È davvero difficile dirlo, ma per avere un’idea di quello che può accadere occorre guardare al passato per comprendere come si è arrivati al pane di oggi. Secondo me le cose devono necessariamente cambiare. Io porto sempre ad esempio la Francia, perché conosco quella realtà, ma negli Anni ’80 del secolo scorso, il pane francese non era buono e quello industriale stava prevalendo. C’è stato un movimento di panettieri che se ne sono resi conto e hanno puntato sulla qualità inventandosi tecniche nuove di produzione, come per esempio il lievito liquido, per alzare il livello di qualità e dare un’opportunità in più al pane artigianale. Anche qui… non è che questa tecnica nasce dal nulla: è stata ripresa adattando il metodo del poolish, che veniva usato in Germania. Da questo movimento, poi, negli anni ’90 è nata l’idea della macchina del lievito liquido. Sono stati Eric Kaiser e Patrick Castagna che, girando per il mondo, hanno avuto l’intuizione di applicare la tecnica del poolish al lievito madre. Adesso si parla di Li.Co.Li. Ma… che cos’è se non lievito madre liquido?
Ma allora bisogna ripartire da zero?
Qualcuno è ripartito guardando a 200 anni fa, tornando a impastare a mano e cose così. Perché no? Questi panettieri hanno diritto di esistere. E, circa il futuro, nessuno lo può prevedere, ma io punto su un pane buono e per tutti. Non su un pane per le élite.
E questo anche se la Terra sta andando incontro a una crisi di approvvigionamento delle materie prime?
Questo è un problema enorme. Come si fa a sfamare quasi otto miliardi di persone che nel giro di vent’anni potrebbero diventare 10 miliardi? Sicuramente andremo incontro a delle soluzioni che hanno alla base ingredienti alternativi: già ci sono dei movimenti di persone che non mangiano determinati alimenti e siamo talmente tanti su questo pianeta che non vedo altro modo, in futuro, di usare anche ingredienti alternativi e sintetici. Certo, io spero che nessuno mi costringa mai a farlo, ma non vedo in giro altre soluzioni. Io, personalmente, partirei invece dal consumare meno, perché non è eticamente corretto buttare tutto quello che avanziamo mentre c’è gente che muore di fame.
E la figura del panificatore che ruolo avrà?
Figure di riferimento a livello mondiale non ce ne sono molte. Il panettiere cui mi sono ispirato e Lionel Poilâne: uno studioso con una biblioteca e una cultura pazzesca, che andava al di là della conoscenza dei metodi di impasto. E da qui vorrei partire per un mio pensiero. Sono i panettieri stessi il limite dell’arte bianca. Perché pensano che il loro sia un mestiere umile. Sento panettieri che si lamentano denigrando questo mestiere. Io mi domando “allora perché lo fai?”. Quando sento queste cose mi sento offeso come panettiere, perché io sono orgoglioso di quello che faccio. È una questione di cultura. Gli chef e i pasticceri sono più aperti, forse perché sono più abituati a girare il mondo, ma hanno anche una visione più dignitosa del loro mestiere. Girano con la giacca e la “toque blanche”: hanno più rispetto per sé stessi. Invece i panettieri sembrano dei “minatori” di altri tempi, e sono loro stessi a sentirsi così: invece che essere sporchi di carbone, sono sporchi di farina. Non tutti ovviamente, però molti sì. Invece, io voglio ispirarmi a chi faceva un buon pane e parlava di pane con cultura, con visione e con poesia.
Per finire, qual è un tuo desiderio legato al pane?
Vorrei rassicurare i colleghi che fanno un buon lavoro e che si trovano a vivere un momento di grande difficoltà. Chi fa un buon pane supererà questo periodo difficilissimo per tutti e troverà una soluzione ai tanti problemi che ci affliggono, oppure deciderà di cambiare direzione, ma troverà comunque la propria strada.
a cura di Atenaide Arpone
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