Economia circolare: Il sistema produttivo deve essere organizzato in maniera tale che tutto ciò che non trova impiego in quel determinato processo, lo trovi all’interno di un altro.
Sul terzo numero del Corriere del Pane abbiamo intervistato il professor Riccardo Guidetti, docente dell’Università di Milano e tra i fondatori di Agrifoof LCA Laboratory. Come esperto di economia circolare ci ha illustrato in maniera chiara e, speriamo, esaustiva, cos’è l’economia circolare e come la si può applicare anche in un’azienda di dimensioni medio-piccole come, per esempio, un panificio.
Di seguito trovate un ulteriore approfondimento sempre grazie alle parole del professor Guidetti. Se desiderate vedere l’intervista del professore, cliccate qui.
Professor Guidetti, ci può spiegare con parole semplici cosa significa economia circolare?
«Economia circolare significa organizzare i sistemi produttivi in maniera tale che tutto ciò che esce possa o rientrare nel processo stesso o, eventualmente, qualora ciò non sia possibile, che lo scarto rientri necessariamente in un altro processo di produzione. In altre parole, non si hanno più sprechi. Il sistema produttivo deve dunque essere organizzato in maniera tale che tutto ciò che non trova impiego in quel determinato processo, lo trovi all’interno di un altro. Il “waste” (spreco, scarto), ovvero buttare via senza alcun tipo di recupero, deve essere l’ultima soluzione. L’economia circolare si contrappone a quella lineare: prendi-produci-smaltisci. Ciò significa che le materie prime vengono estratte o raccolte, quindi trasformate in prodotti che vengono utilizzati fino a quando non vengono buttati come rifiuti. In questo sistema economico, il valore viene creato producendo e vendendo quanti più prodotti possibile. Nel sistema economico circolare, invece, l’uso delle materie prime è ridotto al minimo, mentre il riutilizzo di prodotti o di loro parti è massimizzato. Ultimo, ma non meno importante, le materie prime vengono riciclate secondo standard molto elevati. A oggi, pensando a tutti gli sviluppi energetici e tecnologici, e tutto ciò che da essi ne consegue, diventa sempre più difficile avere scarti o, per lo meno, significa non voler applicare buone pratiche. Il più delle volte è dunque una cattiva gestione a rendere non recuperabile qualcosa».
Sulla base di questo, dunque, secondo lei l’economia circolare è applicabile anche a una piccola azienda, come può essere un panificio di medie-piccole dimensioni? E se sì, come?
«A mio avviso le direi subito di sì, perché si tratta proprio di un concetto, di mentalità, di approccio alla produzione, quindi non c’è differenza tra il grande e il piccolo, prova ne sia che tutti noi siamo coinvolti, a livello domestico, nella raccolta differenziata. Come dico spesso: sono piccoli atti che assumono senso nel momento in cui li facciamo tutti. Quindi, dando per scontato che non c’è un discorso di economia di scala che fa sì che i grandi lo possano fare e i piccoli no, a livello di piccole realtà, la cosa diventa ancora più semplice, perché ci si può appoggiare al sistema virtuoso che, in parte, già usiamo a livello domestico. Una piccola azienda, come un panificio, può dunque appoggiarsi ai canali già presenti, come la raccolta dei rifiuti, appunto. Se così non fosse, perché le dimensioni sono un po’ più grandi o vi sono dei limiti legati ai regolamenti comunali, il panificio dovrà fare prima di tutto delle valutazioni legate all’impiantistica che ha in essere, quindi cercare di capire qual è il livello tecnologico che a oggi c’è. Perché quando si parla di fuoriuscite da un ciclo produttivo non si parla solo di materia prima, ma anche di corretta gestione dell’energia. È dunque importante fare un check per arrivare a capire il livello in cui siamo, magari investendo in un piccolo studio. Mi rendo conto che una piccola realtà non possa affidarsi a un energy manager o a studi approfonditi in questo senso; tuttavia, può cominciare a ragionare sui consumi, senza dare tutto per scontato. Faccio un semplice e forse banale esempio: quando arriva la bolletta della luce non diamola subito al commercialista perché la paghi, ma ragioniamoci sopra un attimo, perché contiene dati tecnici che possono essere molto interessanti e importanti da questo punto di vista. Ragionare significa prendere consapevolezza e mettere in atto tutta una serie di buone pratiche che possono portare, per esempio, a gestire meglio un forno o più utenze, magari non più parallelamente, ma in maniera differenziata. Sono tutte buone pratiche che portano a un bene comune: se io gestisco meglio le mie necessità energetiche, l’impatto sarà, in generale, a livello comune. Perché economia circolare vuole dire anche questo: è un approccio che, tutto sommato, ha nel bene comune uno dei suoi obiettivi, questo è poco ma sicuro».
Quindi, alla fine, sta dicendo che ci sarebbe anche un ritorno economico?
«L’aspetto economico è stato il driver della valutazione energetica fino agli anni ’90. Tutte le valutazioni che si facevano negli anni ’80-’90 ponevano come obiettivo la riduzione dei costi. Attenzione, non sto dicendo che questo aspetto oggi sia meno importante, specialmente negli ultimi tempi che le bollette sono diventate esorbitanti, continua infatti a essere un elemento significativo, però oggi c’è la consapevolezza che quell’energia vada a impattare sull’ambiente. Ed è qui che nasce quel driver in più: il rispetto del bene comune. Ribadisco, ogni realtà, e dunque anche il panificio, dovrà fare le sue valutazioni. Anche se, già di suo, il settore della panificazione non ha scarti eccessivi. Pensiamo per esempio al packaging: i sacchi della farina sono di carta e quindi entrano già di fatto nel ciclo di recupero, ma non solo. Pensare “circolare” diventa dunque un approccio gestionale: fare in modo che tutto vada secondo i canali preferiti e preferenziali. In questo senso diventa un’economia circolare».
Quindi lo sforzo è davvero minino, basterebbe pensare “circolare” e pretendere che anche gli altri, per esempio i fornitori, lo facciano?
«L’economia circolare a oggi è un discorso interessante perché non siamo più al momento zero, i canali che permettono di raggiungere l’obiettivo sono già alla portata di tutti. Questa è la cosa sulla quale bisogna ragionare: i vari consorzi che si fanno carico del recupero, per esempio, sono già un passo avanti, e sono perfettamente in linea con questo approccio. Ecco, dunque, che diventa una questione di pensiero. Quando scelgo un ingrediente o un elemento da utilizzare nella mia azienda devo farmi una domanda in più: questo oggetto o materia prima, che è fondamentale per il mio processo produttivo, come mi arriva? Qual è il packaging? Quella scatola o quella determinata confezione che fine fa? E da qui scaturisce un altro aspetto importante legato all’economica circolare che si chiama life cycle thinking (pensare in maniera circolare). Non penso più solo all’ingrediente che mi serve, ma anche al packaging, alla modalità di approvvigionamento, ecc. Qui sta il punto di svolta, pensare sì alla farina, ma anche a come mi viene consegnata. Ho fatto l’esempio della farina, ma il pensiero vale per tutto, anche perché se parliamo di una materia prima come la farina parliamo di un settore ben consolidato, che ha già adottato degli approcci virtuosi. Se l’artigiano inizia a ragionare così, pretendendo che la merce che ordina abbia un determinato pack e smettendo di vivere il rapporto con il fornitore passivamente, pensando erroneamente “tanto poi lo butto”, allora quel prodotto diventa “oggetto di contrattazione” e l’artigiano “costringerà” a un approccio circolare anche chi gli fornisce l’oggetto, e via dicendo. È così che si arriva a un approccio circolare fin dalla progettazione di tutto il sistema produttivo. Si tratta di una svolta epocale: tutti siamo coinvolti dal produttore al consumatore finale. Pensiamo anche al pane e al suo significato, che ha un impatto importante sul consumatore, più che mai questa categoria deve sentirsi coinvolta».
Sostenibilità: cosa significa e che relazione ha (se ce l’ha) con l’economia circolare?
«Sono due concetti tangenziali se non addirittura paralleli, nel senso che i punti di connessione sono tantissimi. Il concetto di sostenibilità è quello di lasciare, bene o male, alle nostre prossime generazioni, un ambiente (nel senso più ampio del termine) dentro il quale possano continuare a vivere. Ovvio che se continuiamo a considerare questa terra una discarica, ci vuole poco per capire che tutto il sistema entrerà ben presto in crisi. Il concetto di sostenibilità, però, vuole essere più ampio: la sostenibilità ambientale è solo una delle dimensioni, vanno infatti considerati anche gli aspetti sociale ed economico. Ecco, dunque, che è meglio parlare di sviluppo sostenibile correlato, che deve focalizzarsi su queste tre dimensioni. Anzi, è fondamentale che siano equilibrate tra di loro. In questo, il concetto di economia circolare è, se vogliamo, il braccio operativo, perché poi l’economia circolare mette in gioco ampiezze, dimensioni, aspetti economici… Dobbiamo adottare approcci circolari per far sì che lo sviluppo sia di tipo sostenibile, cioè uno sviluppo che mette al centro sempre l’uomo e il suo benessere e quindi, attenzione, l’ambiente come riflesso del benessere dell’uomo. Questo può significare che una scelta che oggi non è idonea, perché la società civile non può farsene carico, lo possa diventare un domani, considerando, appunto, un’evoluzione che è già in essere. Ecco, dunque, perché i due concetti sono estremamente collegati l’uno con l’altro».
Sta dicendo che l’ambiente, piuttosto che la società ci impongono dei limiti, può fare un esempio?
«L’esempio che faccio di solito è questo: pensiamo alla shelf- life di un prodotto alimentare, sappiamo che il cosiddetto “tempo di vita utile” è legato a un determinato processo tecnologico. Ora, la domanda che io faccio e che rivela un po’ l’assurdità di queste considerazioni è: se io ho un processo tecnologico che mi richiede tanta energia, però allunga la shelf-life è giusto o no come processo? È “meglio” sprecare energia, magari dando più vita al prodotto in modo tale che non diventi scarto, o sprecare meno energia e avere una shelf-life più breve sapendo che, probabilmente, quel prodotto, una volta in mano al consumatore, potrebbe essere scaduto e quindi buttato via? Questo è il grande buco nero degli scarti della filiera agroalimentare. Si tratta di una tematica al centro di tante attenzioni e la soluzione univoca non la vedo ancora, o almeno non in questo momento. Questo per dire che, al momento, certe tematiche lasciano ancora degli interrogativi o non hanno ancora risposte univoche, restano dunque aperte».
Riccardo Guidetti è professore ordinario di meccanica agraria presso il Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano. Dal 2018 è presidente della Commissione Agroalimentare (UNI/CT 003) presso UNI. Dal 2017 è presidente della Sottocommissione (UNI/CT003/SC 53) Macchine e Impianti per l’industria alimentare e la Ristorazione collettiva. E dal 2012 è presidente del Consorzio A&Q – Polo per la Qualificazione del Sistema Agroalimentare. È inoltre uno dei fondatori del laboratorio “Life Cycle Assessment AgriFood Chains”, specializzato nell’approccio LCA applicato ai sistemi alimentari.
a cura di Anna Celenta
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