Ugo Alciati ripercorre la storia del suo celebre locale. Negli anni Guido Ristorante è stato amato da un pubblico gourmet internazionale.
Ugo Alciati è uno dei riferimenti della cucina italiana. E questo non solo perché il suo Guido Ristorante è tra i capisaldi della ristorazione nelle Langhe, un luogo dove la “terra piemontese” è portata in tavola con un’eleganza capace di coglierne sempre l’essenza eliminandone ogni sbavatura.
È un riferimento perché la storia della famiglia Alciati si intreccia indissolubilmente con quella della ristorazione del nostro Paese. Cinquant’anni ininterrotti di stelle Michelin (Costigliole d’Asti, Pollenzo e Serralunga d’Alba), del resto, non sono cosa da poco e raccontano, insieme ai piatti, uno spaccato di cultura e di società, oltre che un grande senso di responsabilità. «Io e i miei fratelli», commenta Ugo Alciati, «abbiamo sempre vissuto questo lavoro con un enorme rispetto per quello che è stato fatto dai nostri genitori, portando avanti ciò che ci hanno insegnato».
Presegue: «La responsabilità è quella di proseguire un lavoro costato molti sacrifici. Per noi questo è un aspetto naturale, perché siamo cresciuti insieme a loro e quindi non lo viviamo come un peso, bensì come un piacere».
L’evoluzione di Guido Ristorante
Ciò che è stato fatto, negli anni, è stato forse un percorso di “pulizia” legato al modo di vedere le cose: «Con il passare del tempo – aggiunge lo chef stellato – la nostra visione di cucina ci ha portato sempre più verso la sostenibilità, scegliendo di affiancare il lavoro di piccoli produttori e allevatori locali, ma abbiamo anche capito che quella che per noi e per i nostri clienti è una storia conosciuta, è ora che venga raccontata. Penso che sia arrivato il momento di comunicare chi siamo e quello che facciamo senza dare più nulla per scontato».
E così in questo ristorante che si trova all’interno della tenuta di Fontanafredda a Serralunga d’Alba, acquistata nel 1858 da Vittorio Emanuele II come dono per l’amata “bella Rosina”, i piatti di Alciati rispecchiano la memoria per le ricette di famiglia, la storia di un Paese, il territorio, quel chilometro Piemonte che porta sulle tavole di Guido Ristorante dalle pesche di Volpedo alle trote e ai formaggi dell’Alta Val Chiusella o al latte dalla Valle Stura.
E ci sono piatti chiaro richiamo a quel glorioso passato nato e consolidatosi a Costigliole d’Asti come gli agnolotti del plin di Lidia, il vitello tonnato, il peperone ripieno o il cardo gobbo. «Questi ultimi due piatti – spiega Alciati – li preparava già mia nonna. Non li abbiamo stravolti, ma semplicemente, grazie alla tecnologia, ne abbiamo migliorato le cotture e i processi di produzione. Oppure modificato gli abbinamenti come nel caso del cardo gobbo che una volta era servito solo con fonduta o bagna cauda, mentre nella nostra versione aggiungiamo le pere Madernassa e le acciughe dei pescatori di Camogli, messe sotto sale apposta per noi».
Insieme a Ugo lavora il fratello Piero Alciati, il primogenito, enologo e responsabile di sala e cantina. Mentre Andrea Alciati, il minore dei tre è altro uomo di sala e di accoglienza, ma all’interno del ristorante Guido da Costigliole nel Relais San Maurizio a Santo Stefano Belbo.
La storia della famiglia Alciati
Com’è nata la storia della famiglia Alciati? «Tutto è iniziato con mia nonna Pierina, che era una grande cuoca di famiglia e con mia mamma Lidia. La nonna era una delle cuoche del paese di Costigliole – racconta Ugo Alciati – ed era lei a cucinare per gli eventi importanti della comunità. Mia mamma inizialmente lavorava come camiciaia ma poi con la nonna prese in gestione il bar del paese che divenne forse la prima cremeria del posto. Qui la domenica preparavano anche qualche piatto per il pranzo riscuotendo grande successo tra i clienti. Tra loro c’era anche Guido, quello che divenne mio padre».
Siamo alla fine degli Anni Cinquanta: Lidia e Guido si conoscono, si innamorano, si sposano e nel 1961 decidono di aprire un ristorante all’interno di un palazzo di recente costruzione. «All’inizio il locale ha continuato a essere un bar cremeria, ma con un grandissimo salone e una cucina performante. La gente – prosegue Alciati – continuava a venire anche per giocare a biliardo o alle carte fino a che mio padre è riuscito a convincere mia mamma e mia nonna a cambiare visione aprendo completamente un altro luogo».
L’idea di Guido Alciati era pura avanguardia per l’epoca. Far capire in un paese di 600 abitanti senza cabina telefonica e con le strade sterrate che la cucina proposta all’interno del locale era quella di un posto in cui le materie prime erano importanti, come l’accoglienza e il servizio. Tappeti persiani, candelabri, tovaglie fino a terra e otto tavoli con 40 coperti invece dei 180 dell’apertura raccontavano di una ristorazione che stava prendendo forma in alcune città italiane. E che a Costigliole aveva il suo indiscusso punto di riferimento.
La nascita del Ristorante Guido Alciati
«I primi anni furono molto difficili – spiega Alciati – proprio perché la visione di mio padre era fuori dal comune. Il suo intento era quello di valorizzare al meglio le capacità culinarie di mia mamma e di mia nonna: per questo scelse di aprire solo la sera e su prenotazione e di proporre un menù che costava il doppio di quelli offerti nei dintorni. Fu un vero dramma. L’ostinazione con cui mio padre decise ogni volta di mandare via i clienti senza prenotazione nonostante il locale fosse vuoto era disarmante; mio fratello Piero era piccolo, io ero in arrivo, mia madre piangeva dalla preoccupazione, ma papà ebbe ragione perché dopo un paio di anni il ristorante iniziò a lavorare molto bene grazie anche alla voce che a Costigliole c’era un matto che non ti faceva mangiare senza prenotazione e questo suscitò grande interesse tra la gente».
E così grazie al passaparola Guido e Lidia Alciati iniziarono a incrementare la loro clientela che arrivava apposta nell’astigiano per mangiare nel loro ristorante dove non esisteva una carta e sia il menù che i vini erano elencati a voce. Arrivarono gli Anni Settanta e il ristorante Guido Alciati ottenne prima una e poi due stelle Michelin. «Ci scrivevano americani che volevano prenotare al ristorante e noi non conoscevamo l’inglese – spiega Alciati – ci facevamo così tradurre la corrispondenza dall’insegnante della scuola media. L’inglese, oggi più che mai è fondamentale anche per un cuoco. Può aprire strade a collaborazioni e lavori all’estero. Non sapendolo parlare così bene, spesso mi sono trovato a dover rinunciare a grandi opportunità. Per questo penso che i ragazzi di oggi non possono lavorare in un ristorante senza conoscere almeno una lingua straniera».
Quelli, del resto, erano altri tempi, e i ristoranti bistellati in Italia erano cinque. C’erano Guido Alciati, Gualtiero Marchesi, Enoteca Pinchiorri, Ezio Santin con l’Antica Osteria del Ponte di Cassinetta di Lugagnano e Angelo Paracucchi nella mitica Locanda dell’Angelo di Ameglia.
Guido Ristorante… da ieri a oggi
«Il ristorante di Costigliole – prosegue Alciati – era un posto incredibile gestito in maniera visionaria da mio padre che ha sempre creduto così tanto in questo progetto da riuscire a farlo funzionare contro qualsiasi tipo di pronostico. Era un locale amato da molte persone, anche famose. Ugo Tognazzi, per esempio, non riusciva a capire come gli abitanti del posto ne potessero parlare senza esserci mai entrati perché costava troppo. Celebri furono le riprese durante una sua trasmissione di cucina in cui arrivò a Costigliole dando lui stesso le indicazioni per arrivare al locale a un arabo su una limousine bianca che chiedeva informazioni a increduli abitanti del paese che lo sconsigliavano perché caro».
Figlio d’arte, come tutti gli Alciati del resto, Ugo ha iniziato la sua carriera in sala, aiutando il padre a servire quando rientrava da scuola.
Fu solo finite le scuole medie che decise di dedicarsi esclusivamente alla cucina iniziando da una sua grande passione, la pasticceria, e non a caso oggi tra i suoi dolci più celebri ci sono le meringhe e il gelato al fior di latte mantecato sul momento. «Poi nacque una vera e propria simbiosi con mia mamma – spiega – perché mi lasciava fare le cose che, nelle sue ricette, secondo lei realizzavo meglio io, in modo da rendere ogni portata eccellente. Per esempio per gli agnolotti ci si divideva il lavoro tra preparare le carni, fare il ripieno, stendere la pasta, fare gli agnolotti, cuocerli e servirli: è anche grazie anche a tutto questo che oggi i suoi plin sono rimasti proprio come allora».
In apertura: Andrea, Piero e Ugo Alciati
a cura di Sarah Scaparone
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