Il cous cous alla carlofortina fa parte delle fondamenta della cucina di Carloforte; qui viene chiamato “cascà”, cotto a vapore e mescolato normalmente con verdure cotte a parte. Oggi viene proposto in quattro diverse versioni (con carne, con pesce, con verdure estive e con verdure invernali) ma i ceci non possono mancare.
Ogni ristoratore presenta le proprie varianti del cous cous di Carloforte, inserendo anche aromi selvatici oppure peperoncino per una versione piccante, ma alla base di ogni ricetta per questo piatto troviamo la semola di grano duro del cous cous (difficile che si usi l’avena) e le verdure del territorio. Da Tabarca, le famiglie liguri trapiantate in questo angolo di terra sarda hanno portato in “dote” questo alimento, decisamente più tipico della cultura araba e magrebina. I chicchi di cous cous vengono fatti con la semola di grano duro: i chicchi di grano vengono macinati grossolanamente per formare la semola.
Nei Paesi caldi, in mancanza di grano, si usa abitualmente il miglio, sempre macinato grossolanamente. Quanto all’aspetto, somiglia alla fregola, ma i grani sono più piccoli e anche il procedimento per ottenerlo dalla semola è diverso. Al giorno d’oggi, la produzione del cous cous è in gran parte meccanizzata; una volta ottenuti i grani, vengono passati al vapore (il cous cous di migliore qualità viene passato al vapore due o anche tre volte. Quando è cotto come si deve è morbido e leggero, non dovrebbe essere gommoso né formare grumi).
La maggior parte del cous cous che si trova in vendita nei Paesi occidentali, però, normalmente viene passata al vapore una prima volta e poi essiccata; è necessario infatti aggiungervi dell’acqua bollente o brodo per renderlo pronto al consumo: si copre il contenitore con un foglio di pellicola oppure si inforna; il cous cous si gonfia e nel giro di pochi minuti è pronto da servire, dopo averlo rimescolato con i rebbi di una forchetta.
Il metodo tradizionale di produzione è ancora in uso solamente presso alcune popolazioni del Nord Africa e del sud-est asiatico e ha qualcosa di affascinante, addirittura – si potrebbe dire – di tribale. Si tratta di una lavorazione molto prolungata: le donne sono use radunarsi a gruppi per vari giorni per preparare insieme una grande quantità di cous cous in grani. Questi ultimi, seccati al sole, possono poi durare per parecchi mesi.
La semola viene spruzzata d’acqua e lavorata con le mani per ricavarne delle piccole pallottoline, che vengono quindi spolverate con la semola asciutta, per tenerle separate, e poi passate al setaccio fine. Quelle che sono troppo piccole per costituire i chicchi di cous cous passano attraverso il setaccio e vengono di nuovo asperse di semola asciutta e lavorate a mano. Questo processo continua fino a quando tutta la semola sia stata trasformata nei minuscoli chicchi del cous cous.
© Foto: Paolo Picciotto
Tratto da “Tonno” dello chef carlofortino Luigi Pomata
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