È incolore, quasi insapore e conta pochissime calorie. Vista l’alta percentuale d’acqua che contiene. E poi ha un’insolita texture collosa-gelatinosa ed è pure un concentrato di fibre e minerali. Il suo nome? Konjac, radice nipponica dalle futuristiche virtù, perché duttile, versatile ed eclettica, coltivata nella prefettura di Gunma, che se ne sta nel cuore del Giappone, in una terra verde e preziosa di acque termali. Un ingrediente capace di stimolare la creatività e per questo protagonista di un laboratorio ad alto tasso di sperimentazione che vede coinvolti cinque grandi chef italiani. Pronti a carpirne l’essenza per interpretarne la consistenza. In un crossover di culture, saperi e sapori. “Anzi, il konjac è un vero e proprio veicolo di gusti”, spiega Nobuya Niimori. Che nel suo milanese Sushi B l’ha persino utilizzato in sottilissimi tagliolini conditi con pesto di shiso e tartare di gamberi rossi di Mazara del Vallo.
Un progetto ambizioso Gunma La Vera – Future Food Lab, promosso dall’omonima prefettura giapponese in collaborazione con Identità Golose. Mission? Diffondere la conoscenza del konjac, insieme a quella di un altro alimento cult quale lo Joshu wagyu, marezzato concentrato di umami, tenerezza e dolcezza. Una carne di altissima qualità, sapida e succulenta, perché figlia di una filiera super controllata. A tal punto che dei bovini viene persino presa l’impronta… del naso. Per la massima tracciabilità.
Ecco allora che fino al 16 novembre, un manipolo di notissimi chef si mette all’opera. Per proporre e servire nel proprio ristorante un piatto dalla matrice gunmiana. Così il giovane Fabrizio Ferrari del lecchese Al Porticciolo 84 crea il suo “aspic”, traendo ispirazione dagli anni Ottanta per realizzare un caleidoscopico mix di anelli di calamaro appena scottati, accompagnati da colorate gelatine veg di konjac, brunoise di verdure e gel di dashi e acqua di ostrica. Messo a punto sempre utilizzando il konjac. Il tutto corredato da porri fritti, castagne e nocciole. Per un mare d’autunno. Intanto, Terry Giacomello dell’Inkiostro di Parma prepara le tagliatelle. Sì, ma di alghe, nappate con crema di grana padano e arricchite da filetto di Joshu wagyu. Crudo, certo, ma dal sentore grigliato, perché scaldato da olio alla brace.
E poi? C’è mister Andrea Ribaldone, che a I Due Buoi alessandrini rilegge la piemontese carne battuta al coltello, trasformandola in un velo trasparente di controfiletto di Joshu wagyu, presentato crudo, con radice di cren (simile al wasabi e molto usata col bollito misto), cipolla cotta a lungo nell’aceto (per una marcata nota acida), coriandolo e infusione di grana padano. Calda e legata con la polvere di konjac. Shabu shabu alla fiorentina style invece per Marco Stabile dell’Ora d’Aria della città del giglio: reale di Joshu wagyu, tagliato finissimo e farcito di puré di patate, cavolo nero e mandorle. Il tutto completato da erbe e verdure toscane e allagato da brodo bollente, impreziosito da Vin Santo. Infine, il dessert. Capace di andare “alla radice del dolce” senza essere dolce. Firmato dal pastry chef del meneghino Ratanà Luca De Santi. Un vegetalissimo simposio in multicolor: carote e barbabietole (croccanti, cremose e in gel), fettuccine di konjac e sorbetto e foglie di sedano.
Insomma, attenti a quei due.
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