Dov’eravamo rimasti? Certo, alla terza stella di Antonino Cannavacciuolo e alla conseguente creazione di quella golosa dozzina ai vertici della ristorazione d’autore italiana.
Come ogni fine ottobre, anche quest’anno è iniziato il count down della Guida Michelin 2024, sessantanovesima edizione, che verrà presentata il 14 novembre in Franciacorta, come due anni fa e l’anno scorso, ma questa volta al Teatro Grande di Brescia, rapinoso déjà-vu delle presentazioni al Teatro Regio di Parma di qualche anno fa.
Del resto, la vocazione binaria della guida Michelin si manifesta a 360 gradi. Dal teatro alle grandi strutture alberghiere, dalle performance in smoking alle chiacchierate semi-confidenziali, dagli annunci a caratteri cubitali alle comunicazioni sui titoli di coda. E’ il modello Michelin per tenere insieme alto e basso, classico e modaiolo, tradizionale e d’avanguardia.
Prudenza Michelin
Fate presto a dire che siamo lenti, chiosano i dirigenti Michelin, ma prima di dare o togliere dobbiamo essere certi, preferiamo venire considerati prudenti che inaffidabili. Un concetto perfettamente in linea con l’approccio della guida, che premia ubiquitariamente ristoranti con impronta imprenditoriale a largo raggio e strettamente famigliari.
Non è stata una rivoluzione da poco. Il format Ducasse ha sdoganato la possibilità di essere uni e trini – e anche molto di più – senza incorrere nelle ire funeste degli ispettori. Oggi, il padre dell’alta ristorazione firma trentaquattro ristoranti sparsi per il mondo, premiati complessivamente con quattordici stelle. Meglio di lui aveva fatto Joel Robouchon, scomparso cinque anni fa e in linea con i primi due c’è Pierre Ganaire, ex enfant terrible piegato alle logiche del mercato gastronomico globale. In Italia hanno seguito le loro orme – pur con numeri decisamente più contenuti – i tristellati Cerea, Bartolini, Romito e buon ultimo Cannavacciuolo.
Piccolo è bello?
La nostra storia è diversa perché diversa è la storia della nostra gastronomia. Negli anni in cui in Francia venivano codificate le ricette-base della cucina tradizionale – così che la soupe à l’oignon fosse pressoché uguale dalla Provenza a Calais – da noi Pellegrino Artusi raccoglieva le ricette regionali sottolineandone la geografia originale e in qualche misura irripetibile (potete immaginare gli spaghetti alla Nerano in Piemonte?). Così, anche molti dei nostri migliori ristoranti sono figli di un terroir davvero difficile da replicare, sia per le materie prime, sia per il radicamento culturale connesso. I michelisti sostengono che entrambi gli approcci – imprenditoriale e famigliare – sono validi, a patto che vengono rispettati i criteri fondanti della guida: esaltazione della materia prima, creatività senza eccessi, continuità tutto l’anno e tutti gli anni. Poco cambia se il cuoco c’è o non c’è: l’importante è che chi va lì, da qualsiasi parte del mondo arrivi, abbia un’esperienza pari alle attese.
Il gioco delle stelle
La questione si riproporrà quest’anno con la corsa alla terza stella, che vede ancora in prima fila due ristoranti centrati sulla figura dello chef-patron, entrambi del Sud (ancora e sempre in credito di almeno una terza stella): l’essenzialista Nino Di Costanzo e il barocco Ciccio Sultano. A loro si aggiunge Antonio Guida, che fa grande la cucina del Mandarin Oriental di Milano. E a proposito di tre stelle, bisognerà verificare se il nuovo ristorante di Norbert Niederkofler avrà confermato agli occhi (e al palato) degli ispettori il livello raggiunto a suo tempo alla Stella Alpina.
A chiudere il cerchio, una novità che riguarda l’hotellerie: a partire dal prossimo anno, la guida premierà gli hotel più straordinari di tutto il mondo con l’attribuzione della Chiave Michelin. La prima selezione, che verrà svelata la prossima primavera, annovera cinquemila alberghi, di cui cinquecento in Italia, “perché i viaggiatori possano completare l’esperienza di una grande tavola con il soggiorno in una struttura eccezionale”.
a cura di Licia Granello
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