Mettete sul piatto della bilancia diecimila ostriche. A spanne, più o meno una tonnellata. Tante ne sono state gustate nell’ultimo fine settimana durante il primo Italian Oyster Fest al porto di La Spezia.
Otto aziende di ostriche a confronto, di cui una francese – ovviamente con sede a un passo da Mont St. Michel – con la voglia/esigenza di raccontarsi agli addetti ai lavori, ma anche di offrire al pubblico un punto di vista differente una conchiglia per troppo tempo ghettizzata in quanto ”cibo di lusso”.
Il successo della tre giorni spezzina Italian Oyster Fest testimonia della curiosità e del piacere che ha accompagnato le degustazioni, impreziosite dall’abbinamento con i vini proposti dai sommeliers. Un primo appuntamento che vale come un robusto numero zero, evento propedeutico all’edizione primaverile, fissata a maggio’24 sempre nella capitale delle Cinque Terre.
Proprio il Golfo dei Poeti caro a Shelley e a Byron, infatti, vanta la tradizione dell’ostricoltura fin dall’800, pur con gli alti e bassi legati ai guai della storia, tra guerre (negli anni ‘40 in zona erano oltre trecento le famiglie dedicate all’ostricoltura) e infezioni come epatite virale e colera. Una precarietà che ha avuto fine solo nel 1977 con il varo della legge 192, che obbliga i produttori alla pratica di stabulazione-depurazione.
Ostriche, eccellenza italiana?
Si dice ostrica e si pensa alla Francia con le sue claires, le vasche di stabulazione dove ogni anno vengono immesse 80.000 tonnellate di coquilles madreperlate. In Italia, i sessanta allevatori di ostriche in attività ne confezionano circa 500: un numero irrisorio in confronto alla megaproduzione francese. Ma il “piccolo è bello” in questo caso ha davvero senso, tradotto com’è in una lavorazione artigianale preziosa, a partire dalla coltura “da seme”, che certifica il legame assoluto tra l’ostrica e il suo mare.
Paolo Varrella, appassionato biologo marino e presidente della cooperativa dei mitilicoltori di La Spezia lo identifica con un neologismo: il merroir. Nel Golfo dei Poeti, per esempio, la salinità oscilla tra il 27 e il 39 per mille: una caratteristica che abbatte la quota batterica e intensifica il sapore. In più, le ostriche di Porto Venere si cibano quasi esclusivamente del phytoplancton locale, che regala sfumature verdi, profumo e sapidità (per dare la stessa impronta marina, nelle claires seminano l’alga navicola blu).
Il “terroir marino” firma le ostriche come i cru del vino: vale per l’ostrica rosa della Sacca degli Scardovari, patrimonio Unesco e riserva della biosfera nel Delta del Po, per quella coltivata nello Stagno di San Teodoro, straordinaria laguna costiera sarda segnata da sole, vento e macchia mediterranea, o ancora per l’ostrica del Gargano, coltivata nel paradiso naturale tra la laguna di Varano e l’arcipelago delle Tremiti.
All’Italian Oyster Fest 2023
A corroborare queste coltivazioni virtuose, amiche degli ecosistemi che le ospitano, l’accertato consumo di CO2. Succede perché le ostriche utilizzano gli ioni carbonati per costruire il loro guscio. Di conseguenza, il mare per ristabilire il proprio equilibrio elettrolitico assorbe l’anidride carbonica dell’atmosfera. Una regolazione benemerita, che negli Stati Uniti si sta traducendo nel progetto di “Oyster Gardening”, coltivazioni di ostriche lungo i perimetri dei porti, ovviamente non come alimento, ma in funzione depurativa.
Nel festival ligure della scorsa settimana, i mille kg di ostriche degustate si sono tradotte in mezza tonnellata di anidride carbonica in meno. Vale la pena di sacrificarsi e metterne qualcuna in più nei nostri menu. Per il bene della terra, naturalmente.
a cura di Licia Granello
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