Di cioccolato ce n’è tanto in giro, forse anche troppo. In Italia il settore è cresciuto in maniera confusa e oggi è nella sua fase di maturità. Vediamo se è possibile identificare i differenti posizionamenti di mercato nonché le relative occasioni di consumo
Sono anni che il mercato del cioccolato cresce con continuità. Quella che solo 10 anni fa era una categoria residuale del settore dolci e pasticceria, oggi è la categoria che tira i consumi durante tutto l’anno nella sua forma tradizionale o in quella gelato. Il cioccolato è un mondo di riferimento per le persone, un immaginario di piacere e indulgenza, raffinatezza e selezione, prodotto da meditazione o snack veloce. È, infine, una declinazione ideale di un dolce o di un piatto che gli fa assumere un maggior valore, come il panettone al cioccolato e tutti i lievitati, ma anche nel salato come la recente pizza gourmet di Simone Lombardi del Dry di Milano, al lardo e cioccolato. Il settore è cresciuto anche in maniera confusa ma oggi nella sua fase di maturità è possibile identificare posizionamenti di mercato differenti nonché relative occasioni di consumo. Di cioccolato ce n’è tanto in giro, qualcuno potrebbe dire anche troppo, ed è bene fare ordine.
La punta del mercato è rappresentata dai maître chocolatier, quelli veri e non quelli a uso pubblicitario, cioè quegli artigiani pasticceri che hanno un particolare competenza in questo settore come per esempio Knam, Galla, Gobino rispetto invece a un Sal De Riso o ad un Iginio Massari che ovviamente sanno lavorare il cioccolato ma non ne fanno una specializzazione. Il maître chocolatier opera di solito in Italia attraverso un negozio icona quasi mai replicato (diversamente rispetto ai colleghi francesi), spesso un negozio storico, di famiglia. Le creazioni sono uniche, i prezzi al top del mercato, la clientela fedele ma selezionata, nel senso che non troverete mai la coda fuori dal negozio.
La pralineria non è proprio nei gusti degli italiani, non ha mai veramente decollato nel cuore dei consumatori, noi mediterranei siamo più pratici: del cioccolato ci piace il pezzo grosso, la tavoletta, il gianduiotto, il gelato, la torta. O comunque il cioccolatino, ma semplice. Molti uniscono la pasticceria al cioccolato per far quadrare i conti. Altri come Guido Gobino hanno creato un marchio che permette di vendere i propri prodotti anche in altri canali di vendita, addirittura da colleghi pasticceri che non trattano il cioccolato. Comunque sia, questi maître chocolatier utilizzano i migliori cioccolati e le migliori materie prime, ma il consumatore finale non lo sa, quindi non esiste un collegamento diretto tra maître-brand-cliente. Rimane tutto nel mondo business to business. Quindi se voi assaggiate un cioccolato che vi piace non saprete mai se è della marca che già acquistate oppure di una che potreste acquistare. Misteri del mondo del cioccolato direte voi, ed è vero, faccio solo prosaicamente notare che gli investimenti dei marchi nei confronti del settore dovrebbero essere ripagati anche da una maggiore notorietà sul mercato del consumo. Ormai anche gli chef stellati dichiarano sul menu con orgoglio il fornitore della pasta…
Poi c’è il segmento dei brand di grande qualità, aziende che hanno rivoluzionato il mercato del cioccolato a livello mondiale, come Domori per esempio. Cioccoillati sopraffini con posizionamento premium tipico del food esperienziale, la cui sfida oggi, in un mercato sempre più segmentato, è quello di essere riconoscibili, aspirazionali e quindi vendibili sul mercato. Le classiche eccellenze italiane del mondo food con una qualità indiscutibile, ma con molto da migliorare nelle loro capacità di essere commerciali, in senso positivo, sul mercato.
Questi sono prodotti intellettualmente complessi, adatti a un target di consumatori appassionati del cioccolato, di cui apprezzano dalla tavoletta alla crema spalmabile, ma sempre di grande qualità. Palati fini, consumi intelligenti, nessun problema di spesa. Per queste aziende che come abbiamo già detto forniscono anche il maître chocolatier, i canali di vendita si selezionano e restringono sempre di più in termini di potenzialità e sostenibilità commerciale. Il canale tradizionale italiano, il negozio di dolci-caramelle-cioccolato, il bar- pasticceria di alto livello, non reggono più questi posizionamenti di mercato a meno che questa tipologia di punto vendita non si sia evoluto.
Un’azienda di questo tipo per esempio ha selezionato solo 100 clienti in Italia che possono sostenere un assortimento completo di questi prodotti. Poi ti puoi concentrare sui nuovi negozi di food esperienziale che nascono in tutta Italia o concentrarti su Eataly che assicura a livello internazionale buoni volumi di vendita. Insomma se vendi qualità ti devi abituare a selezionare con attenzione la distribuzione e a ristrutturare la tua rete di vendita che è sempre più costosa e porta risultati sempre più mediocri. Poi c’è l’opzione negozio diretto o corner, che può dare grandi risultati ma ti introduce al mestiere del commerciante, che ha regole diverse da quelle del produttore. Un mondo pieno di sfide e di opportunità.
Il grosso del mercato come consumi del cioccolato è dato dalle aziende che coprono la fascia mainstream dei consumi, aziende muscolari in termini di investimenti di marketing e commerciali che antepongono la notorietà del brand e la forza della loro distribuzione all’enfasi su qualità e materie prime. Non fraintendetemi, non sto dicendo che i prodotti non sono di qualità, intendo solo dire che la selling proposition di queste aziende è ompletamente diversa da quanto visto in precedenza. Gobino ci mette la faccia, Domori il Criollo, Lindt il Lindor, che è un prodotto brand, una ricetta e non un’origine del cioccolato. Non esiste, ma sarebbe bellissimo se esistesse, la pianta di Lindor, ma non c’è nulla di male. Lo stesso vale per Pernigotti e Venchi che puntano sul recupero di un brand del passato, per Ferrero che strizza l’occhio a mamme e bambini con il brand Kinder latte e cioccolato, Perugina che tenta l’ennesimo rilancio.
Queste aziende vendono più o meno tutte in grande distribuzione, nei negozi tradizionali, nel travel retail (stazioni e aeroporti), on line, negli outlet anche attraverso negozi diretti. Producono e vendono il cioccolato in tutte le sue forme: tavolette, creme spalmabili, cioccolatini, gelato e cioccolata calda ed altro, prediligendo la formula del libero servizio, tipica dei canali di vendita che presidiano, ma hanno inventato nei loro corner e negozi il pick and mix, quel metodo diabolico per cui scegli tu il prodotto lo metti nel sacchetto, lo pesi e lo paghi.
Tutti, anche quelli che comprano dai maître o dai brand premium, comprano questi prodotti perché durante una tua giornata di vita li incontri nei luoghi che frequenti, il bar del caffè, il supermercato sottocasa, l’Autogrill, la stazione o l’aeroporto. Spesso li “subisci” perché sono gli unici che trovi quando hai voglia di cioccolato, ma altrettanto li scegli perché son prodotti facili come gusto, indulgenti e soddisfacenti al palato. Nel mondo delle esperienze food sempre più complicate premia anche una sana semplicità. Da ultimi, ma per logica forse avrei dovuto parlarne all’inizio, nascono posizionamenti del cioccolato che reinterpretano l’artigianalità e la tradizione del saper fare in maniera moderna, figlia dei nostri tempi, dove l’intenditore, il selezionatore, l’appassionato sono garanti della qualità.
Il culto del personaggio e di un metodo che nasce nel mondo anglosassone: il mitico from bean to bar, ovvero fare il cioccolato partendo dalla fava per arrivare alla barretta. Detto così per il cliente finale significa veramente poco: per mia mamma e mio figlio, li prendo a campione, nella loro ingenuità di consumatori di cioccolata non hanno mai pensato che le tavolette nascessero sotto i cavoli! Mentre è la declinazione più di moda del concetto, quella che impatta sul modo di presentare questi prodotti, in particolare sul negozio: laboratorio hipster per eccellenza, colori scuri, metallo e cemento, barbe lunghe, capelli curati come i Mast Brothers (quelli che dichiaravano from BtB mentre aprivano i sacchetti di massa di cioccolato), esperienza mistica di consumo da laureati ad Harvard.
Non metto in dubbio la qualità e l’applicazione del protocollo dalla fava alla tavoletta, ribadisco però che quello che è evidente in questi esercizi, quello che lo distingue dal mercato, è più un esercizio di forma, appunto dal packaging al negozio, che colpisce commercialmente il cliente. La proposta di un modo diverso di vendere il cioccolato, simile ad altri consumi del food tipo hamburger premium, che veramente premia un nuovo tipo di cioccolato. Più storytelling che tavoletta. In Italia su questo filone abbiamo Marco Colzani. Non è dato sapere se questa tendenza continuerà o si estinguerà, quello che è sicuro è che in un mercato così competitivo e con canali di vendita sempre più ridotti per tutti, raggiungere volumi di fatturati profittevoli è sempre più difficile. I clienti di questo cioccolato sono i foodies che comprano anche le uova di Parisi, il pane e la pizza di Bonci, i salumi di Spigaroli. Buon cioccolato a tutti!
(A cura della redazione)
Condividi l'articolo
Scegli su quale Social Network vuoi condividere