Parizzi è un esempio virtualmente perfetto di come si sia evoluta la cucina italiana negli ultimi decenni. Perfetto nel senso che se proprio si dovesse studiare questo fenomeno all’americana, quindi basato sul case study (lo studio di “casi” è un metodo di ricerca che parte da esperienze singole per giungere a una teoria generale), nessun altro locale sarebbe più interessante da analizzare.
Una delle cose che lo rende così attraente è il dove è: Parma. Una città che offre ai suoi cuochi materie prime veramente ottime – quelle prodotte in grande quantità artigianale o semi industriale cospicua, perché uno zio che alleva pochi meravigliosi maiali è sì un terno al lotto per un ristoratore ma non fa certo la qualità diffusa… -, che ha alle spalle secoli di attenzione alla buona cucina di (piccola) corte e borghese e che, scusate se è poco, viene accudita dall’alto dei cieli dai maghi Cantarelli. E quindi dove, proprio per questi motivi, c’è un inossidabile amore per la tradizione, che rallenta (dire tarpa è eccessivo…) il moderno, la crescita, l’evoluzione. E come tutti sanno la cucina, ma lo stesso vale per ogni fenomeno sociale, senza evoluzione, muore. Pensate come sarebbe triste la nostra tavola senza i tanti prodotti americani e dell’Estremo Oriente che l’hanno arricchita, introdotti dopo lotte che fanno impallidire quelle di oggi contro gli Ogm.
Ma torniamo a Parizzi. Nacque da un’idea di nonno Pietro nel 1946, per trasferirsi due anni dopo in Strada della Repubblica, dove ancora opera, come gastronomia per parmigiani esigenti (vendevano anche il brodo…) più osteria ruspante. Il successo è immediato. Nel 1968 subentra il padre Ugo, che decide di chiudere la gastronomia e far diventare il tutto un ristorante vero, di tono, con una proposta parmigiana classica nelle preparazioni ma con un’attenzione agli ingredienti e una cura nelle esecuzioni che classiche proprio non erano. La nuova formula funziona alla grande, il pubblico accorre e la critica pure, e alla fine vengono premiati, nel 1980, con la stella Michelin. Che mantengono tuttora, da trentaquattro anni consecutivamente.
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