Alcune considerazioni libere di Licia Granello dopo la presentazione della Guida Michelin 2023. La guida, gli chef, la direzione della cucina.
Non la ama quasi nessuno. Anno dopo anno, nuova edizione e presentazione pubblica sono precedute e seguite da km di parole, dette e scritte, tutte o quasi di critica. La Michelin è come l’antibiotico: un male necessario. Non esiste al mondo un’altra guida altrettanto importante, influente, per certi versi decisiva. La ristorazione internazionale di qualità si riconosce nelle stelle Michelin più che in qualsiasi altro simbolo gastronomico. I macarons sono gioia e delizia della grandissimas maggioranza di cuochi e ristoratori del pianeta. Senza se e senza ma.
I difetti probabilmente sono maggiori dei meriti. Di volta in volta, la Rossa viene accusata di essere lenta nel premiare i nuovi talenti e ritardataria nell’archiviare quelli andati a male, refrattaria a riconoscere i nuovi trend della ristorazione e ipersensibile al fascino gastroeconomico dei nuovi mercati. Ma nessun’altra guida di ristoranti (e alberghi) può vantare il principio fondante della Michelin: gli ispettori – ovvero gli esperti che mangiano e giudicano – sono a libro paga dell’azienda Michelin, vincolati dal contratto collettivo di lavoro Gomma-Plastica, a tempo indeterminato. Il che significa essere a tutti gli effetti “dipendenti Michelin”, con tanto di biglietto da visita e carta di credito aziendale.
Sembra un dettaglio, è una straordinaria “conditio sine qua non”. Perché se io sono pagata a scheda – il commento pubblicato – e magari il compenso copre la metà del conto del ristorante (a cui aggiungere il costo del viaggio) ho tre possibilità di comportamento. La prima prevede che mi faccia riconoscere, sperando nella generosità (o furbizia) del ristoratore.
La seconda attiene alla possibilità di far coincidere il pasto con una trasferta di lavoro. La terza elude il problema, stante le condizioni agiate del gastronomo, che spesso si trasforma in autore di scheda, rinunciando al compenso in cambio dello status di ispettore. In ogni caso, se l’esperienza a tavola non è convincente voi tornereste per verificare a vostre spese?
Alla Michelin il problema non si pone, semplicemente perché gli ispettori sono stipendiati e non pagati a scheda. Un dato di fatto che non assolve comunque la Rossa dai difetti di cui sopra, peggiorati dalla recente “managerializzazione” del giudizio. In Francia è così da tempo: non a caso il ristoratore più stellato del mondo è Alan Ducasse, forte di un impero gastronomico planetario. Un nuovo approccio funzionale all’ingresso nei mercati del mondo, cominciato con gli Stati Uniti e ora allargato a decine di Paesi, con altrettante guide dedicate.
In virtù del nuovo corso, prima Bartolini e ora Cannavacciuolo assommano alle tre stelle quelle dei loro tanti spin off, in un trionfo di macarons (la famiglia Cerea segue con numeri più piccoli). Ma la ristorazione francese è ben diversa da quella italiana, perché diversa è la storia e molto diversi sono i suoi comandamenti. Negli ultimi anni, talenti distanti dalla dimensione internazionale di Michelin – due nomi per tutti: Riccardo Camanini e Nino Di Costanzo – si sono ritrovati ai margini del main stream. È come se essere grandi cuochi e imprenditori assennati non bastasse più per risplendere sulla scena rutilante dell’alta ristorazione. Il tutto, mentre il mondo si interroga sulla necessità di proteggere la piccola imprenditoria virtuosa, dall’agricoltura all’alto artigianato, su su fino alle industrie non inglobate dalle multinazionali. Né basta l’invenzione della stella verde per compensare la tendenza alla globalizzazione della ristorazione d’atore.
Se la Michelin non vuol rinnegare il suo claim più famoso – Vale il viaggio – deve trovare il modo di illuminare anche il cammino dei non-allineati. Perché nell’Italia del “piccolo è bello” esaltato dai tanti Bib Gourmand ci sia spazio anche per multistellati piccoli&belli. Chi vieni qui ci ama anche per questo. E vuole leggerlo sulla Rossa.
a cura di Licia Granello
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