Mentre in Italia si dibatte sulle tombe dei grandi chef, un altro rappresentante della storia della gastronomia internazionale ci lascia.
Stamattina a Ginevra è mancato Joël Robuchon, 73 anni, uno dei padri della cucina francese: lo chef più stellato al mondo, 24 stelle conquistate e mantenute, con un impero costruito su un’intuizione. I suoi Atelier, una versione più semplice e alla mano dei classici ristoranti stellati che pur manteneva, hanno reso il suo un brand un successo internazionale.
Riflettevo su quando è stata la prima volta che ne ho visitato uno, e cercavo le foto sul mio smartphone: ebbene, non ci sono, perché la prima cena in un Atelier risale a prima dell’uscita dell’iPhone. Quando la cucina a vista era impensabile, quando i cuochi non avevano alcun rapporto coi clienti, quando chi cucinava era invisibile, ma soprattutto quando cenare dalle stelle si pagava a caro prezzo e l’esperienza nel ristorante di tono doveva essere distaccata e eterea, lui ribaltò tutto e decise che il rapporto con chi andava da lui doveva essere messo al centro della scena. La convivialità e la piacevolezza dovevano andare di pari passo con la perfezione assoluta dei piatti preparati. Una carta snella, piccole delizie da assaporare e condividere, niente etichetta ma sostanza costante.
Nero e rosso lacca erano il fil rouge che accompagnava chi voleva fare un viaggio di alta cucina finalmente diverso dal consueto, senza possibilità di prenotare ma per vivere un’emozione diversa da quella tradizionale: un’immersione totale nella cucina di concetto, scoprendo il balletto dei cuochi ed entrando nell’intimità della loro cucina. Giappone e Spagna le inspirazioni costanti, in qualche modo unite nel format Atelier: non per nulla il primo aprì a Tokyo nel 2003, seguito solo in seconda battuta da quello parigino.
Abbiamo chiesto a Martino Ruggeri, il cuoco che rappresenterà l’Italia al campionato della gastronomia più famoso al mondo, il Bocuse d’or, un ricordo di quello che è stato tra i suoi Maestri:
“Il suo Atelier, quello storico di Montalembert a Parigi è stato il primo ristorante in cui sono stato a lavorare in Francia: è stato un bell’impatto, molto diverso dall’esperienza italiana. Anche se i miei compagni di allora mi avevano preparato, passare da 40 a 150 coperti è stata una sfida notevole, rispettare la gerarchia in un ambiente molto duro, imparare nuove cose mi ha fatto crescere molto. Sono stato da lui un anno e mezzo, passando da demi chef de partie a chef de partie, e l’ho incontrato alcune volte. Non parlava quasi mai con nessuno, ma assaggiava tutto. Ho avuto più occasioni di incontrarlo da Alléno: Robuchon veniva spesso a trovare lo chef al Pavillon Ledoyen e mangiava da noi. Alléno ne aveva grande stima: ha fatto davvero la storia della cucina e ora ci aspetta un cambio generazionale importante.”
Leggere la sua biografia su Le Figaro ci aiuterà a ricordarlo: l’attacco è il miglior addio possibile. ‘Le cuisinier aux 24 étoiles vient de rendre son tablier.‘.
Un innovatore che ha definito nuovi canoni e che ci lascia un po’ più soli, come se in questi mesi terribili per la grande cucina internazionale ce ne fosse stato bisogno. Lo celebreremo gustando il purè, suo piatto icona , perché ‘La cucina è la semplicità e la cosa più difficile è la semplicità‘.
Anna Prandoni
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