Gestire la lievitazione in maniera corretta non è per tutti, richiede esperienza e professionalità oltre che passione. Un Decreto Ministeriale e un Disciplinare danno indicazioni ai pasticceri che si vogliono cimentare in questa lavorazione.
Il recente e continuo successo riscontrato dai grandi lievitati della tradizione italiana come il panettone rappresenta certamente un vanto per i pasticceri – la fama riscossa in tutto il mondo dal nostro prodotto simbolo inorgoglisce e offre opportunità straordinarie – ma suggerisce anche una profonda riflessione, assolutamente necessaria, sui modi, sui termini e sul significato stesso di artigianalità.
Gino Fabbri, presidente AMPI e pasticcere di lunga e indiscussa esperienza, invita a un esame di coscienza il mondo della pasticceria, affinché il valore qualitativo degli straordinari dolci della nostra tradizione sia per tutti il punto di arrivo e non quello di partenza. Secondo Gino Fabbri, è fondamentale, innanzi tutto, fare chiarezza sul termine “artigianale” perché esso rappresenta l’essenza del lavoro del pasticcere e lo distingue dall’industria. In questo senso esistono diverse scuole di pensiero, altrettanto valide ma ispirate a concetti diversi.
Il prodotto artigianale è un prodotto fresco, da consumarsi entro un lasso di tempo ben definito e relativamente breve. Esistono normative che regolano la produzione e tracciano delle linee guida. Per la produzione di lievitati sono essenzialmente due: il D.M. del 22 luglio 2005, adottato congiuntamente dal Ministero delle Attività Produttive e dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e, per il Panettone, il Disciplinare di produzione del Panettone Tipico della Tradizione Artigiana Milanese.
Entrambi dispongono regole di base da seguire, ma se il Decreto Ministeriale si applica genericamente a una produzione sia artigianale sia industriale e punta principalmente all’identificazione del prodotto, il Disciplinare prevede regole più restrittive per la denominazione dello specifico prodotto artigianale, il Panettone, l’unico che deve rispondere a determinate caratteristiche per ottenere il marchio di conformità.
Spiega Gino Fabbri: «Il Disciplinare prevede linee guida minime, venne redatto per avere una traccia comune, ma oggi risulta di fatto incompleto e parzialmente superato. All’epoca in cui venne stilato, la tecnologia non aveva ancora perfezionato metodi di lavorazione che oggi vengono comunemente applicati facendo emergere la possibilità di arricchire il prodotto con tecniche nuove e ingredienti innovativi. Per esempio, la realtà del Disciplinare non prevede l’utilizzo di additivi, per la verità non lo prevede esplicitamente nemmeno il Decreto Ministeriale, per il semplice fatto che all’epoca non esistevano.
Oggi, questi additivi, sotto forma di particolari formulazioni di monodigliceridi degli acidi grassi in particolare, vengono ampiamente utilizzati non solo dall’industria ma anche da molti artigiani. La domanda che ci dobbiamo porre a questo punto è: possiamo continuare a considerare il prodotto artigianale? Potremmo rispondere che è un prodotto artigianale ma contiene ingredienti non previsti. La mia opinione personale, condivisa da molti miei colleghi, è che il prodotto artigianale sia solo quello fresco e, dunque, se contiene additivi studiati per prolungarne la conservazione sembrerebbe perdere questa sua caratteristica, cioè quella di prodotto fresco non trattato e gestito in modo da durare più di 6 mesi per il solo fatto che la tecnologia lo consente».
Un Disciplinare che avrebbe bisogno di aggiornamento, quindi, per rispondere a una realtà produttiva assai differente dall’originale oppure per tracciare un limite invalicabile. Il dilemma è assai complesso e richiede una riflessione attenta, bisogna trovare un punto d’accordo tra i professionisti. «Il punto cruciale – spiega il Maestro Fabbri – è il volume di produzione che ognuno è in grado, o vuole essere in grado, di realizzare. L’enorme successo che i lievitati in generale, e il panettone in particolare, riscuotono ha indotto negli ultimi anni a intensificare la produzione anche da parte di chi non disporrebbe di sufficienti risorse per farlo.
La scelta che bisogna fare – e qui invito i colleghi a riflettere attentamente – è tra inseguire la tendenza del mercato e lanciarsi in una produzione massiccia che per forza di cose sarà eseguita con l’appoggio di tecnologie alternative, o puntare sulla qualità e sull’eccellenza del prodotto limitando fortemente il volume. Entrambe le scelte sono degne di rispetto ma a questo punto sorge un ulteriore problema. Coloro che, per scelta personale o esigenze qualsiasi, decidono di produrre lievitati con l’ausilio di additivi o tecniche non propriamente artigianali devono avere l’obbligo di dichiararlo in etichetta, affinché il cliente sia debitamente informato e possa anch’egli operare una scelta ponderata e consapevole.
Io credo fermamente che si debba rivedere la produzione di lievitati, come del resto di ogni dolce artigianale, in quest’ottica. L’innovazione e la ricerca del miglioramento non devono per forza passare attraverso la tecnologia: si può migliorare una ricetta classica superandola in tecnica e maestria, applicando la creatività alla tradizione».
La questione del prezzo
Altro punto cruciale è certamente il prezzo di vendita: un lievitato artigianale realizzato con materie prime di alta qualità non può essere venduto a un prezzo inferiore a 30-35 €/kg. «Il cliente deve capire il valore del prodotto, sta a noi farglielo comprendere – ribadisce Fabbri – e non è scendendo a compromessi che si raggiunge lo scopo ma facendo in modo che il consumatore possa apprezzare le qualità.
Oggi, la maggior parte dei pasticceri che producono un panettone di alta gamma oltre a rispettare il Disciplinare offrono un prodotto perfino superiore nelle percentuali di ingredienti utilizzate: questo deve essere compreso dal cliente perché è un valore aggiunto di enorme importanza. Non sarebbe corretto equiparare un prodotto di tale pregio ad altri molto più simili a prodotti industriali. Inoltre, anche qui si sta verificando un controsenso incredibile: la qualità di molti prodotti industriali è nettamente superiore a quella di alcuni prodotti artigianali mediocri.
Non dobbiamo assolutamente permettere che questo accada». Sembra essere molto difficile conciliare le esigenze di mercato con quelle della produzione artigianale in purezza ma forse si tratterebbe solo di applicare delle scelte consapevoli e strategiche trovando un punto di incontro tra lavorazione tradizionale e innovazione tecnologica, tra comunicazione al cliente e target di mercato. «Esistono ottimi prodotti in grado di conciliare queste problematiche – spiega Gino Fabbri – poiché l’industria molitoria ha elaborato in questi anni miscele di farine altamente performanti e anche l’ingredientistica è orientata verso maggiore naturalità e salubrità.
Non è necessario demonizzare i semilavorati per lievitati, basterebbe applicare scelte consapevoli e soprattutto affermarne chiaramente l’uso in etichetta: il cliente è mediamente preparato per comprenderne le differenze e in grado di apprezzarle, ma deve onestamente essere informato. È naturale come l’orientamento del mercato in determinati casi possa influire sulle scelte personali di ogni artigiano. Dobbiamo prenderne atto e agire in modo da tutelare la nostra credibilità qualunque scelta si applichi.
L’importante è sempre rispettare il prodotto, la sua identità e il suo valore. Una coscienziosa autogestione della professione è certamente più valida di un marchio di tutela debole, tenendo presente che un prodotto di alta qualità realizzato con materie prime superiori, vaniglia, canditi, burro ecc., e completato da un packaging all’altezza del suo valore non può fare altro che amplificare il lavoro coscienzioso di un bravo pasticcere».
(A cura della redazione)
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