Stefano Cerveni
Chef
 Lo so di essere in controtendenza. In Italia il voto ai ristoranti viene, praticamente sempre, dato solo ai piatti: ambiente e servizio, e spesso anche la carta dei vini, non contano. Io invece “peso” ambiente e servizio almeno altrettanto del cibo, quando do un voto, perché sono convinto che un ristorante di tono (ma anche tutti gli altri…) vadano giudicati a livello globale. Il primo motore che spinge noi italiani ad andare in un buon locale è il festeggiare qualcosa e quindi, più che mai, l’ambiente e il servizio contano; e se da giornalista scrivi per informare il tuo pubblico e aiutarlo a scegliere, queste informazioni sono importantissime. Lo so, molti colleghi amano raccontare di un ristorante come loro si sono trovati, quanto i piatti sono loro piaciuti, io cerco di dare ai miei lettori delle informazioni di come è e cosa è un locale, cosa riesce a darti.
Per questo motivo mi piace Stefano Cerveni e mi piacciono le Due Colombe. Perché il cibo e ottimo, ma l’ambiente lo è altrettanto: un antico borghetto, non un edificio…, restaurato con perizia e tanti soldi, non si può chiedere di più, poi il servizio, supervisionato da Sara Magnacca, è veramente al top. Per me mangiare fuori è un lavoro, da Cerveni è anche un grande piacere totale.
Stefano ha poco più di 40 anni. È figlio d’arte. Iniziò la nonna Elvira nel pieno centro di Rovato, era una semplice osteria, faceva i piatti classici della zona, compreso il mitico manzo all’olio – ma lo faceva con una marcia in più, non l’ho assaggiato ma ho letto la sua ricetta: per quegli anni era proprio moderna, senza un esagerata aggiunta di olio, tipica di questo piatto. Nel 1978 subentrano il padre Giuseppe e la madre Clara: il locale diventa via via ristorante tout court.
Stefano cresce in cucina. Poi la scuola alberghiera, ma vuole implementare l’offerta e quindi inizia il canonico, fondamentale giro di stage. Ma cresce anche andato a mangiare in tantissimi buoni locali: “così ho imparato moltissimo – dice – credo di aver speso in grandi locali il 30 percento di quanto ho speso in vita mia. È costato, ma è stato un grande investimento, si impara di più così che a stare a lavorare in cucina”.
Resta col padre fino al 2000, poi si trasferisce lì vicino, in un vecchio mulino, e il dado è tratto: vuole avere un locale importante. Lui dice che ha iniziato con tanti dubbi, non tanto sui piatti quanto sulla ricettività in zona di quel tipo di ristorazione. Però va caparbiamente avanti. La consacrazione avviene nel 2009, con la stella Michelin. L’anno dopo si accorda con i Fratelli Gozio, delle distillerie di Franciacorta, che ristrutturano il borghetto.
La sua cucina, come la definisce? “Voglio fare piatti buoni, belli, ben fatti e che sappiano emozionare. Voglio che chi viene qui da me, al di là del mangiare bene, viva un’esperienza totale”. Sulle materie prime: “Le materie prime devono essere il meglio, da dove vengano importa meno, però per fortuna qui da noi ce ne sono tante ottime”. Ama la carne ma anche il pesce, e poi: “con il pesce sono più creativo”.
Curiosamente, per me, non ama le tecniche nuove: niente roner, niente pacojet: ogni volta che ci vado cerco di convertirlo…
Curiosamente, anzi per nulla curiosamente, anzi è la cifra del suo lavorare, due piatti sempre presenti “se li tolgo i clienti mi linciano”. Sono i bigoli col pestöm, un ragù di salame fresco al vino rosso, e, va da sé, il manzo all’olio della nonna Elvira.
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