Lo chef del ristorante Koinè di Legnano racconta il suo percorso, la sua filosofia in cucina e i suoi piatti a Italian Gourmet.
Alberto Buratti, oggi lei è lo chef del Koinè. Quando ha fatto la sua prima esperienza lavorativa in una cucina?
Fin da bambino intuivo che il mio futuro sarebbe stato dietro ai fornelli: spinto dalla curiosità, fin dalle scuole medie ho iniziato a frequentare i primi corsi di cucina durante le vacanze, mentre all’oratorio, spesso, mentre i miei coetanei giocavano a pallone io davo una mano in cucina. Il primo vero giorno di lavoro però è coinciso con il mio quattordicesimo compleanno, quando ho iniziato il primo stage nella cucina di un hotel a Cogne.
Qual è stato l’impiego che più di tutti l’ha formata durante la sua carriera?
Ogni lavoro mi ha insegnato qualcosa, ma le esperienze che mi hanno aiutato a creare uno stile personale sono senz’altro quella all’Antica Osteria del Ponte, dove ho appreso il rigore e l’organizzazione del lavoro in cucina per la preparazione di piatti espressi e per evitare gli sprechi; quella all’Osteria Francescana con Massimo Bottura, da cui invece ho imparato il gusto per la sperimentazione con le materie prime e le tecniche, la creatività e il perfezionamento continuo. L’esperienza in Spagna, nel ristorante Azurmendi dello chef Eneko Atxa, mi ha invece regalato una visione più chiara sulle cucine internazionali, permettendomi di sperimentare un approccio alla cucina completamente diverso da quello a cui ero abituato.
Quando ha aperto il Koinè?
Sono passati ormai più di otto anni da quando, nel 2014, ho aperto il mio ristorante a Legnano. Abbiamo aperto l’11 maggio di quell’anno per una festa di compleanno privata e il cliente di allora è ancora un frequentatore assiduo del mio ristorante. Koinè, il nome che abbiamo scelto con quello che era il mio socio all’inizio di questa avventura, indica un linguaggio condiviso, una “lingua comune” che nel periodo ellenistico unificò i tanti dialetti locali dell’antica Grecia in un’unica lingua condivisa. Lo abbiamo scelto facendo delle ricerche su Bovesin de la Riva e Uguccione da Lodi, autori lombardi, che nel 1200 scrivevano le loro opere esprimendosi in un linguaggio noto come “koinè lombardo-veneta” o “koinè settentrionale”, una lingua comune a tutta l’area padana. Lo stesso è avvenuto per il volgare dell’area toscana, da cui poi è nata la lingua italiana contemporanea. Questo concetto unificatore, che parte dal mondo ellenico e arriva fino a casa nostra, ci è piaciuto da subito e abbiamo deciso di farlo nostro. Oggi ho un nuovo socio, con cui il ristorante si è evoluto, ma il concetto di koinè continua a unirci e a rappresentarci, tanto che guida anche la cucina: il mio stile è ricco di influenze da tutto il Mondo, nei sapori e nelle tecniche, ma anche dal mio stesso territorio di origine, dal territorio che circonda Koinè.
Come descriverebbe la sua cucina?
La mia è una cucina contemporanea. Ed eclettica. Amo le contaminazioni culturali e gastronomiche, ma mai fini a se stesse, semmai reinterpretate per costruire un racconto e un incontro. Non intendo la “koinè” solo in senso geografico, ma la interpreto anche in termini temporali: per esempio, la cucina tradizionale nei secoli è cambiata, si è evoluta, ed è pressoché impossibile definire esattamente cosa sia, oggi, la tradizione. Spesso, cercando di etichettare uno stile culinario, si finisce per attribuirgli un orizzonte temporale limitato, che rischia di imprigionare la creatività. Cercare un linguaggio gastronomico comune significa invece liberare l’estro e scegliere il meglio, ovunque sia possibile, nello spazio e nel tempo: da Koinè il cliente trova le patate fritte, apparentemente tradizionali, ma in realtà proposte in tre cotture, perché diano il meglio di sé. Per il risotto giallo, emblema della tradizione milanese, chiarifichiamo il midollo: non è una mancanza di rispetto per la tradizione, è la ricerca di un punto di incontro che sappia raccogliere l’eredità del passato e renderla comprensibile al mondo moderno.
Come si compone il menu di Koiné?
Da Koinè, ho scelto di proporre diversi menu: quello dei grandi classici del territorio, come omaggio al luogo che ci ospita, in cui non mancano il risotto giallo e la cotoletta preparati secondo il mio stile; quello con i miei “piatti firma”, messi a punto negli anni e a cui i clienti sono affezionati; quello del mercato, che mi permette di variare ogni giorno e, ultimo nato, quello completamente vegetariano. Mi piace sottolineare che non c’è piatto, nei miei menu, che sia riconducibile a un’unica matrice, a una singola fonte di ispirazione: sono suggestioni o ricordi di qualche elemento interessante che fanno scattare in me l’idea, la voglia di interpretare un ingrediente e renderlo protagonista di un piatto.
C’è un piatto che la rappresentano più di altri?
Tra i piatti firma, sono affezionato agli spaghetti in cagnone: un piatto apparentemente semplice, che richiede una tecnica attenta per ottenere un gusto e una consistenza perfetti. Ma anche il manzo “California”, ispirato a una ricetta tipica dell’omonima frazione di un Comune della Brianza, piace molto ai clienti e suscita allegria per via del nome, che confonde e sorprende. Tra le proposte vegetariane, i barbajuan di verdure rappresentano bene il processo di ispirazione che mi porta a creare un piatto: si tratta della rivisitazione di un tipico raviolo della riviera ligure, diffuso fino a Nizza. L’abitudine antica e contadina di conservare le verdure dell’inverno sotto il portico, lasciandole maturare lì, mi ha ispirato: sono state scelte verdure adatte alla stagione, che prepariamo a mo’ di zuppa, in cui abbiamo poi fatto cuocere del riso. Il risultato è una sorta di “minestrone asciutto”, con cui viene farcito il raviolo che poi, come prevede la ricetta classica, viene fritto.
a cura di Simone Zeni
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