La biografia di Wicky Pryan, lo chef nato in Sri Lanka che ha studiato criminologia, è vissuto un paio di decenni in Giappone dove ha appreso la tecnica della cucina Kaiseki e circa 14 anni fa è approdato in Italia, è ormai cosa nota.
Oggi Wicky Pryan si appresta a vivere una fase di rinnovamento, nessun stravolgimento, ma un’ulteriore apertura verso il mondo, puntando ancora di più su uno degli aspetti della cucina giapponese: l’arte dell’accoglienza, praticata a 360 gradi.
Se oggi il locale di Corso Italia conserva ancora la luna all’ingresso, che accoglie i clienti e ricorda la luna piena sul lago del villaggio dello chef, a breve non mancherà qualche piccolo ritocco estetico che darà ancora più luce nel segno del benessere degli ospiti.
La sua brigata non vede ancora la presenza di italiani, presenti invece in sala; in cucina è salva una quota rosa, con la presenza di una ragazza ai fornelli.
Se in passato gli si chiedeva cosa hanno da imparare italiani e milanesi rispetto alla vera cucina giapponese rispondeva: tutto! Oggi invece appare meno severo e con un sorriso ammette che qualcosa abbiamo assorbito anche noi dalle vere tradizioni culinarie del sol levante, oltre a sushi e sashimi.
Una nuova fase di apertura anche verso i colleghi, con i quali andare oltre il fugace incontro di una sera. Da qui l’idea di una serie di cene durante le quali confrontarsi ai fornelli con altri professionisti, in occasioni di scambi umani oltre che gastronomici.
Cene unite da un’idea che vorrebbe farsi format, “La via della seta” il nome, come un filo che collega oriente a occidente.
L’ultima in ordine di tempo organizzata con lo chef pluristellato Enrico Bartolini, non è stata la prima 4 mani nè sarà l’ultima; le prossime già fissate a cadenza mensile ma nel rispetto del cliente, per il quale deve essere una sorpresa, ancora non vengono rivelati i nomi.
Un atteggiamento in linea con la filosofia a tavola dell’omakase giapponese (letteralmente lascio a voi la scelta, o mi fido di te) in cui il cliente non ordina un piatto specifico ma si affida allo chef, confidando nelle sue capacità.
Cene a quattro mani che nascono da incontri personali, la conoscenza con Enrico data già da alcuni anni e non nasce certo oggi.
Le sinapsi oriente/occidente non rappresentano una novità per Wicky, al contrario fanno parte del dna della sua idea di cucina. Basti pensare all’iconica ricetta del maialino dei Nebrodi cotto 16 ore secondo la tecnica tradizionale giapponese. Materia prima italiana, tecnica orientale. Nel recente esperimento di ristorante pop up in Sardegna, durante la stagione estiva, il maialino utilizzato era quello sardo. Parlare di fusion rischia di diventare riduttivo, non si tratta solo di affiancare ingredienti di culture diverse ma di fare entrare in dialogo tecniche e ingredienti di estrazione diversa tra loro. Più che un accostamento tout-court una vera assimilazione. Anche se poi lo stesso Wicky non rinuncia a volte ad abbinamenti più ludici, già nel nome, come il Sushi cacciucco: salsa di pomodoro con bisque di vongole e aragosta, uramaki con tempura di gambero, funghi e salsa al gorgonzola, il riso rigorosamente allo zafferano.
Il percorso studiato con Enrico Bartolini non risente di un forte stacco nell’alternanza tra un piatto e l’altro, una continuità nella scansione del menu che mira all’essenziale.
I piatti proposti sono anche l’occasione per dimostrare il corretto uso del wasabi secondo i dettami kaiseki. ‘Il wasabi mai in polvere!’ ci ammonisce Wicky mentre mostra orgoglioso le radici di wasabi fresco.
Un percorso didattico quasi, dove ventresca di tonno e wagyu in due piatti separati possono anche dialogare in quanto a similitudini estetiche, o per aspetto del taglio, o ancora per golosità e scioglievolezza in bocca, seppur doversi tra loro.
Bartolini da parte sua fa centro almeno due volte. Dopo il biscotto omaggio a Gualtiero Marchesi (una vera miniatura morbida/croccante che per aspetto e sapore cita gustativamente il noto riso oro e zafferano, foglia d’oro inclusa) lo fa con lo storione alla milanese. Un finto risotto, dove al posto del riso compaiono piccoli pezzi di finocchio, cotti nella crema di zafferano, con una texture che richiama il chicco tostato e una cremosità che riproduce la mantecatura di un risotto. Scopriremo che è sempre una crema di finocchi (da coltivazione biodinamica) che dà la resa cremosa assieme a un pizzico di parmigiano, salsa soia, tabasco e sambuca.
Grassezze vegetali e con meno calorie di un vero risotto. Al centro lo storione, come fosse il midollo. Il nome del piatto non necessita più di spiegazioni.
Anche con il dolce Bartolini colpisce nel segno, e stavolta prima lo sguardo del palato: nel piatto fiorisce un grande albero disegnato. Dal tronco e dalle fioriture sui rami coglieremo frutti che sanno di pistacchio, di arance amare, come fosse un albero della cuccagna mediterraneo, un ulivo che riceve l’accento goloso finale dallo chef Bartolini stesso, che lo completa al tavolo con una generosa cucchiaiata di zabaione.
La via della seta continua, il percorso è tracciato, si tratta di creare nuovi legami per approfondire temi che non conoscono barriere, come quello sul quinto sapore ad esempio, l’umami, sul quale da oriente a occidente si appassionano e fanno ricerca chef di culture differenti. “Quando Wicky mi ha fatto notare che alcuni miei piatti esprimevano il gusto umami, ci ho riflettuto sopra” confida Bartolini. Ci rifletteremo anche noi al prossimo assaggio, per fare del gusto uno strumento di conoscenza.
a cura di Roberto Magro
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